Dura la vita per gli artisti che si trovano a dover fare i conti con un lavoro di debutto memorabile, di quelli che inducono a pensare possa in fondo bastare un solo titolo per farsi ricordare in eterno; eppure sappiamo quanto la gloria sappia essere effimera, basti considerare – la storia insegna – quanto capitato alle cosiddette one-hit wonder, capaci da sole di trainare un album al successo, fino a fagocitare l’intera carriera di una band.

Un rischio che per molti rischiarono di correre anche i funambolici Supergrass, giovanissimo terzetto di Oxford capitanato dal talentuoso Gaz Coombes, che si trovarono a dare un degno successore a quel monumento del pop che rispondeva al nome di “I Should Coco”, pubblicato nel 1995, ovvero nel pieno della rinascita della musica inglese.

Era quello un frullato di notevoli singoli, tutti baciati da un grande e meritato successo (come non citare almeno “Mansize Rooster” e soprattutto l’irresistibile “Alright”, divenuta all’istante un manifesto del britpop), dove sgorgava libero e felice tutto il teen spirit del gruppo.

Giunti alle soglie del fatidico secondo album, quindi, i Supergrass avevano tutto da perdere, ma in realtà  pensarono bene di non proporre un replicante del precedente capitolo ad uso e consumo della massa, preferendo provare già  ad evolversi, irrobustendo il proprio sound e tentando, riuscendoci a tratti, altre soluzioni musicali, che potremmo definire in maniera forse impropria più “mature”.

Certo, sempre di ragazzi poco più che ventenni si trattava, cioè a conti fatti ben più giovani dei loro colleghi allora in auge (pensiamo ai componenti dei Blur, degli Oasis, dei Suede o dei Pulp, quest’ultimi addirittura di un’altra generazione, anagraficamente parlando), ma non si direbbe, vista la spiccata personalità  della loro proposta artistica e la ricchezza di idee profuse e messe qui in gioco.

Un fulgido esempio di questo nuovo corso lo si trova già  all’altezza del singolo di lancio, “Richard III” che, caratterizzato da una sontuosa cavalcata elettrica, si discostava non poco dai pezzi contenuti nel debut-album; stessa cosa si può dire della ficcante “Sun Hits the Sky”, anch’essa uscita in solitaria, piena di colori e variazioni sul tema: notevole ad esempio lo stacco strumentale con protagonista l’organo hammond di Rob Coombes (fratello maggiore del cantante Gaz).

La maggiore eterogeneità  del sound mette così in luce anche la versatilità  e la compattezza di una sezione ritmica (formata da due assi come il bassista Mick Quinn e il batterista Danny Goffey) che viaggia a pieni giri, oltre che nei pezzi sopra citati, anche nella festosa “Tonight” o nella beatlesiana “Sometimes I Make You Sad”.

Tutto il disco si distingue per una maggiore ricchezza di arrangiamenti che, se da una parte potrebbe far venire meno il lato spontaneo della band, dall’altra conferisce un alone di profondità  e spessore a episodi come “Going Out” – sorta di viaggio a ritroso nei magnifici sixties -, la placida “Hollow Little Reign” e una “Late in the Day”, che sin dai suoi cristallini suoni acustici in apertura, inchioda all’ascolto, trasportandoti nel mondo dorato dei “ragazzi impertinenti” del britpop, dove è possibile frullare tutto il meglio della tradizione pop rock d’Albione.

Non passa inosservato quindi, oltre all’amore per i Fab4, anche quello per gli altrettanto salienti Rolling Stones (si ascolti ad esempio  il cantato di Gaz “alla Mick Jagger), in un efficace equilibrio di scenari sonori consolidati, ma che loro hanno avuto il merito di fare propri, attualizzandoli al contesto degli anni novanta.

Ho sempre amato “In It for the Money”, per il suo titolo irriverente, le sue asperità  e le sue dolcezze, con i suoi picchi di intensità  e l’amabile leggerezza, e a distanza di venticinque anni esatti dalla sua pubblicazione, credo sia un episodio discografico imprescindibile, non solo dei titolari Supergrass, ma di tutta un’epoca d’oro per la musica inglese che, proprio in quello stesso anno (1997), poteva vantare capolavori come “Ok Computer” dei Radiohead, l’omonimo dei Blur o “Urban Hymns” dei Verve.

In mezzo a questi autentici giganti, credo che sarebbe doveroso ogni tanto ricordare anche i Supergrass, i quali, pur non raggiungendo quelle vette creative, sono riusciti a mantenere appieno le fragorose promesse iniziali.

Data di pubblicazione:  21 aprile 1997
Tracce: 12
Lunghezza: 43:03
Etichetta: Parlophone
Produttore: Supergrass, John Cornfield

Tracklist
1. In It for the Money
2. Richard III
3. Tonight
4. Late in the Day
5. G-Song
6. Sun Hits the Sky
7. Going Out
8. It’s Not Me
9. Cheapskate
10. You Can See Me
11. Hollow Little Reign
12. Sometimes I Make You Sad