E alla fine il migliore è tornato. Dopo cinque anni di inattività  dal leggendario “DAMN.”, Kendrick Lamar è tornato con il suo quinto album in studio chiamato “Mr.Morale & the Big Steppers”. Un album complesso e difficile da descrivere, ma dove le parole per Kendrick Lamar escono con una facilità  disarmante. Non c’è nessuno nel panorama hip hop che al momento sappia usare il lessico come lui. Non c’è nessuno che al momento sappia descrivere bene la realtà  esteriore e interiore come lui.

Come si può far empatizzare qualcuno con la propria vita, il proprio vissuto, le proprie sensazioni? Lo fai prendendo quello che provi e rendendolo arte. Ecco quello che ha fatto Kendrick Lamar nella sua carriera e specialmente con questo album. Dopo cinque anni di quasi totale isolamento, anche dalle persone care, Lamar decide di psicoanalizzarsi in un album completo. Con “United in grief”, il primo pezzo del disco, l’artista parla di che cosa sia successo negli ultimi cinque anni dentro la sua testa, andando a richiamare alcuni aspetti del suo passato: da Compton cioè la sua città  natale e leggendaria nella storia dell’hip hop americano, dalla psicoterapia (centrale e fondamentale in questo album) e dalla sua dipendenza dal sesso.

“N95”, uno dei pezzi più importanti dell’album, è forse l’esempio più riuscito di come si possa parlare di questi anni di pandemia e lockdown senza banalizzare il tema. L’artista decide di andare contro tutte le critiche che gli sono state mosse negli ultimi anni, di essersi mostrato poco attivo durante tutto il movimento Black Lives Matter e di come si sia poco esposto durante la pandemia.

“Father Time” è uno dei pezzi più toccanti dell’album dove ci si pone di fronte a uno dei temi più importanti che ogni uomo con un vissuto difficile dovrà  affrontare: come puoi essere un buon padre se non ne hai avuto uno presente? Il tutto è seguito a stretto giro da “We cry together”, un pezzo con la presenza dell’attrice Taylour Page (e introdotto da Florence Welch), si parla di relazioni tossiche con un’emotività  e un linguaggio pieno di odio a cui tutti prima o poi siamo stati abituati.

Se la prima parte d’album è esplosiva, la seconda è più cupa e introspettiva con riferimenti religiosi (come in “Crown”) o il tentativo di affacciarsi alla comunità  LGBT+ (con “Auntie Diaries”) in maniera un po’ confusa e raffazzonata.

Il finale però è probabilmente la cosa più bella dell’intera carriera di Kendrick Lamar: il duo “Mother I Sober” e “Mirror” sono l’apice della penna dell’artista più importante di questa generazione. Prendendo un trauma familiare, Lamar parla a tutti quelli che soffrono, assolvendoli dalle loro colpe in pieno stile predicatore. Parla alla generazione di chi ha vissuto la violenza, di chi ha vissuto il degrado, prende la sua sofferenza e la porta all’estremo, in un crescendo catartico. E non parla solo all’America, come spesso si dice di K-Dot, stavolta parla al mondo intero. Kendrick Lamar con la sua vulnerabilità  che lo contraddistingue da altri maestri del genere, fa capire di essere pronto a prendere l’eredità  dell’hip hop anni ’90, dice chiaramente che è il migliore. Con una consapevolezza del genere, i risultati non possono che essere questi.

Credit Foto: Renell Medrano