Puntualissimo, come ci ha da sempre abituato, Hugo Race pubblica, in questi giorni, il nuovo disco “Once Upon A Time In Italy” con il collettivo, Fatalists, che lo segue da ormai sei album a questa parte.

Lui è il classico musicista per cui ha senso spendere, con lode, la parola artista, un percorso immacolato, senza scivoloni o compromessi in oltre trent’anni di carriera a partire dalla granitica collaborazione con i Birthday Party quindi trasformati in Bad Seeds, a condividere in pianta stabile il primo percorso dell’istrionico Nick Cave, per ritrovarlo poi in alcuni dischi fondamentali, non ultimo il capolavoro “Murder Ballads”, non proprio un’esperienza qualunque.

Ma al di là  del prestigioso curriculum, siamo di fronte ad un cantautore sempre sulla retta via, capace di mantenere alta l’asticella anche in questa ennesima reincarnazione ed ennesimo disco di qualità .

Come detto sopra, tanti anni di carriera, tante pubblicazioni e differenti collaborazioni, come non menzionare e ricordare i Sepiatone insieme all’artista siciliana e compagna di vita di quel periodo, Marta Collica.

Tornando ai Fatalists, “Once Upon A Time In Italy” è un altro lavoro completo, scritto benissimo e suonato ancora meglio con il gusto di chi fa le cose per bene, dando valore ad ogni singola nota, dove i dettagli fanno la differenza, la registrazione è curata minuziosamente e non è un caso. Era così anche nel precedente, per non citare praticamente tutta la sterminata discografia.

Accompagnato appunto da musicisti italiani, gli stessi che lo seguono live, Diego Sapignoli, Francesco Giampaolo e Giovanni Ferrario, ospitando su disco la cantante australiana Giorgia Knight, l’album è un crescendo di scrittura e qualità , ci sono diverse canzoni che lasciano il segno nel presente, per rimanere capisaldi anche di future setlist, da “Atomized” emozionante e psichedelica, che apre il discorso, a “Beat my drum” che profuma di blues moderno e folk crepuscolare, la bellissima ballata oscura “Hockey” o la sussurrata “Mafia”, per non parlare della title track o dell’insolito singolo, la cover di “Hurdy Gurdy Man” di Donovan, resa propria, sicuramente è anche l’episodio più facile quanto accessibile del lotto, profumando di sixties, com’è giusto che sia.

Ragionamento che riguarda tutti i lavori che si rispettino, quindi anche “Once Upon A Time In Italy”, necessita di qualche ascolto in più del frettoloso e distratto che a volte si dedica con pressappochismo a certe uscite. Noi più di consigliarlo non possiamo fare, ma quando si hanno dischi così tra le mani, si ritorna a fare pace con la musica che conta.

Photo Credit: Meredith O’Shea