C’erano una volta i Dubstar di Steve Hillier, Chis Wilkie e Sarah Blackwood, un trio capace di muoversi abilmente tra dream pop, dance e pop puro nel fermento inglese della seconda metà  anni novanta e primi duemila. Esordio luccicante con “Disgraceful” (1995) sulla storica Food Records, due singoli di successo come “Stars” e “Not So Manic Now”, i palchi del Reading Festival e di Glastonbury calcati in gran spolvero, poi “Goodbye” (1997) e “Make It Better” (2000) prima che incomprensioni e contrasti mettessero la parola fine al progetto.

La raccolta “Stars: The Best Of Dubstar” sembrava fugare ogni dubbio su possibili reunion future ma il tempo può tutto e sotterrata l’ascia di guerra Blackwood e Wilkie si erano già  ritrovati in “One” nel 2018 ma con “Two” hanno deciso di fare le cose in grande. Il ritorno di Stephen Hague (New Order, Pet Shop Boys) alla produzione, ruolo già  ricoperto nei loro due album più famosi, li trasporta in una nuova dimensione.

Ballad e dance pop lucido, ritmato con diverse punte di diamante (il singolo “Token”, le ben più malinconiche “Tears” e “Lighthouse”) ritmi ora movimentati ora più riflessivi e la voce di Sarah Blackwood che trova melodie molto cool in “I Can See You Outside”, “Social Proof” e “Kissing To Be Unkind”. I Dubstar sono e restano acuti osservatori, “people watchers” come loro stessi si sono definiti anni fa, un’abitudine preziosa la cui importanza emerge prepotentemente nei testi di “Two” che riescono ad essere spiritosi e maturi.

Alcuni episodi più orecchiabili e divertenti (“Tectonic Plates”, “Hygene Strip”, “Blood”) influenzano le sorti di un album che flirta con l’indie pop prima della chiusura molto elegante affidata a una cover di “Perfect Circle” degli R.E.M. arrangiata per piano e voce. Un ritorno in buona forma per i Dubstar che tra spensieratezza, vulnerabilità  e nostalgia restano fedeli a sè stessi.