In un inverno gelido del 2010, appena fuori Bologna, mi apprestavo ad assistere al primo tour di una ragazza dai capelli rossi e la sua incredibile macchina. Il primo album “Lungs” mi aveva squartato in due dalla sua bellezza e carica emotiva, dal suo lato strumentale delicato ma forte ed incisivo, ma soprattutto da una delle voci più interessanti nel panorama alternative-pop.

Da quel momento catartico, con fuori la neve che scendeva, non ho mai smesso di ascoltare Florence and The Machine. Con il secondo album “Ceremonials” si fa un passo avanti notevole, andando a smussare ogni lato sonoro delle produzioni rendendo il tutto più fluido e maturo. Dal terzo, la cosa inizia a cambiare: ci sono produzioni notevoli alla base, ma il percorso artistico e anche lo storytelling attorno alla figura di lei iniziano a diventare diversi, più realistici nel raccontare determinati episodi o argomenti. Oramai consacrata nell’olimpo delle grandi voci femminili del nuovo millennio, Florence Welch si fa carico del suo passato turbolento ed incerto per farsi simbolo di speranza per chi non ce l’ha. Con il terzo e quarto album si scade certe volte nello scontato, con canzoni oramai sentite precedentemente. Dal punto di vista estetico, visivo (e con questo intendo proprio i video a seguito dei brani) e fisico il tutto però riconduce ad un tema cardine per la cantante: la danza.

Con “Dance Fever” mi sono tornati i brividi, proprio come una volta. Ho pensato che sarebbe uscito un album carico di immagini metaforiche, di bei testi, ma con musiche oramai   banali. Mi sono dovuto ricredere, e non potevo che esserne più felice.

14 canzoni, una danza lunghissima: finalmente Florence riesce a catalizzare la sua passione smisurata per il ballo, travolgente ed inquietante allo stesso tempo, e buttare tutta quella forza nella musica. Il ballo come catarsi fisica e metafisica, come annullamento di ogni problematica del passato, di ogni sventura e grande delusione provata. Il suo manifesto parte da una frase, all’interno del suo primo singolo rilasciato, che dice “i am no mother, i am no bride, i am king”.  Ed è proprio “King” che ci fa capire, ancora prima di ascoltare il nuovo album, chi era e chi è oggi Florence: è un re, è una regina, è chiunque lei voglia essere. Senza limiti, senza pregiudizi. Il suo passato che l’ha tormentata prima e durante la sua carriera iniziale è oramai stato assorbito e riutilizzato per energia nuova.

Il disco è prodotto da Jack Antonoff che, a differenza del lavoro svolto per “Solar Power” di Lorde, ha voluto lasciare meno la sua traccia di produttore e più libertà  al gruppo. L’incontro e il prodotto finale è sicuramente ottimo, non scontato e scorrevole. Una grande colonna sonora per un grande racconto, arricchito anche dall’aiuto (micidiale, in senso positivo) di un altro grande artista ovvero il leader dei Glass Animals Dave Bayley: con “My Love” e “Daffodil” lo spirito dance e ritmico del cantante inglese trova una perfetta armonia strumentale con la voce candida ma potente della protagonista del disco accompagnata da un’insaziabile sezione di percussioni quasi da guerra.

L’album potrebbe essere inserito appositamente in un film come “Midsommar”, per i suoi lati oscuri e tenebrosi ma anche caratterizzati da una luce propria originata dall’anima forte della cantante. Ed è proprio quella luce, carica di speranza ed ottimismo, che si ritrova in “Choreomania” dove Florence dichiara “And I danced myself to death”. Una danza perpetua fino alla morte, ma una morte positiva quasi come fosse una vera e propria rinascita. Florence and The Machine sono quindi in un moto costante di energia e noi non possiamo che unirci a loro perchè sicuri di una cosa: non ci stancheremmo mai.