Arrivavano a questo esordio con già  diversi occhi puntati addosso i Catherine Wheel. La loro carica, la loro energia e il loro fragore non erano passati inosservati e i primi EP fungevano da ottimi biglietti da visita. Le etichette indie erano in fermento per assicurarsi la firma dei 4 ragazzi che alla fine decisero di cedere al corteggiamento della Fontana, che pubblicò questo strabiliante esordio nel giugno del 1992.

I perni del loro sound sono li, gà  in vetrina e faranno la fortuna di un disco che si giova di un songwriting ispiratissimo e solido, ma sopratutto di un produttore come Tim Friese-Green che saprà  estrapolare il meglio da tuti i protagonisti. Rob Dickinson ci mette la voce e vi assicuriamo che non è poco, in questo caso. Inseriti (frettolosamente) nel filone shoegaze i Catherine Wheel dimostrano che anche le band di quel genere possono avere un cantato “fisico” e versatile e non solo disperso nell’etereo, mentre Brian Futter fa un lavoro sublime alla chitarra, riesce a imprimere un senso di potenza e un muro sonoro impressionante, quasi noise, eppure permane latente quella vulnerabilità  e quell’introspezione che ogni disco shoegaze che si rispetti porta sempre dentro di sè.

Il bello è che poi, altra componente fondamentale per lo shoegaze quello “serio”, in mezzo a distorsioni, ritmi che incalzano e batteria che picchia solida ecco emergere in modo sublime le melodie, e si resta sbalorditi di come i Catherine Wheel siano cresciuti nel giro di poco tempo. Prendiamo una canzone come “She’s My Friend” o la travolgente “I Want To Touch You” o ancora l’incalzante “Salt”, impossibile non farsi catturare da giri di chitarra micidiali e da giri melodici che fanno subito centro. Sono fisici questi Catherine Wheel, gestiscono la materia shoegaze quasi con i muscoli oliati e bene in vista e la cosa farà  centro non solo in UK ma sopratutto in USA, dove il loro retrogusto grunge farà  colpo. E il bello è che sanno pure fanno i furbetti quasi “indie-pop” con i “ba-ba-ba baloon” in un clima appena più disteso e sbarazzino (appena eh, perchè pure qui le chitarre sono super)!

Volete che vi dica la verita? Ogni canzone sarebbe da citare per un elemento, per un passaggio o per qualche particolarità  che la renderebbe degna di menzione. Mi adeguo al giochetto in parte, ma giusto perchè non parlare di “Bill and Ben” sarebbe un sacrilegio, con l’andatura shoegaze-psichedelica che viene interrotta da un frangente devastante in cui tutto esplode e la band parte ai mille all’ora e ci travolge come fiume in piena. “Texture” mi ricorda i Ride ed sostenuta da un Neil Sims alla batteria in stato di grazia assoluta e poi vabbè vuoi non citare “Black Metallic”, la canzone più nota del disco e forse della band? Una canzone che rappresenta tormento ed estasi, sofferenza e catarsi, struggimento e urlo di rabbia: in 7 minuti una colonna sonora di vita con un assolo di chitarra che a me fa piangere da tanto intenso è.

“Ferment” è il disco più bello della band? Eh, bella domanda. Sarei tentato di rispondere si. Ora ci penso, me lo riascolto per la milionesima volta, poi, forse, vi rispondo…

Pubblicazione: 9 giugno 1992
Durata: 57:10
Dischi: 1
Tracce: 12
Genere: Rock, Shoegaze
Etichetta: Fontana, Mercury
Produttore: Tim Friese-Green

Texture
I want to touch you
Black metallic
Indigo is blue
She’s my friend
Shallow
Ferment
Flower to hide
Thumbledown
Bill and ben
Salt
Balloon