Nell’anno del ventennale del clamoroso debutto “Turn On the Bright Lights”, la band newyorkese di Paul Banks ritorna con il lavoro numero sette creando come mai fatto in precedenza delle nette divisioni tra chi sta adorando quest’album e chi, al contrario, lo considera il punto probabilmente più basso della compagine statunitense.

In realtà  “The Other Side of Make-Believe”, pur non apportando alcuna energia nuova, in qualche modo dirompente o dall’effetto wow, rimescola tutto il sound uscito dagli ultimi album, a partire da quello omonimo, dando vita a un mood orientato sulla pacatezza, morbidezza che in molte occasioni trasmuta in eleganza.

Gli Interpol, insomma, vogliono dimostrare di essere gli Interpol senza voler per forza strafare ma al contempo nemmeno rifugiarsi in una sorta di comfort zone. Una “certa” innovazione nella loro musica è tangibile, sebbene non è quella sperata.

I singoli anticipatori dell’album hanno generato, a dire il vero, più tumulti che apprezzamenti ancorchè nella loro diversità  viene in risalto la ricercatezza che riveste i sopraffini arrangiamenti. Difficile non ammetterlo. E, dunque, dalle toccanti note di pianoforte iniziale di “Toni” si passa allo sciccoso ma cupo soul in dote a “Fables”, fino ad arrivare alle derive jazzistiche della bella “Something Changed”.

Concepito in tre diversi parti del globo – Paul Banks a Edimburgo, Daniel Kessler in Spagna e Sam Fogarino ad Athens negli Stati Uniti – la band si è ritrovata a New York alla fine del lockdown per registrare il nuovo full-length alla corte di due pezzi da novanta: Alan Moulder (alla cabina di regia già  in “El Pintor”  del 2014 e nel disco omonimo del 2010) e Flood (Depeche Mode, U2, Nick Cave and the Bad Seeds, Nine Inch Nails, The Smashing Pumpkins, Placebo, solo per citarne alcuni).

“The Other Side Of Make-Believe” risente ovviamente della presenza degli esperti producer e il tutto convoglia in una pletora di svariate sfumature che mettono in luce le caratteristiche e virtù di Fogarino (nella già  citata “Something Changed”, nella psichedelica “Into The Night”) nonchè quelle di Kessler (“Gran Hotel” che rappresenta probabilmente il pezzo migliore e che scava nel sound primiparo della band, l’incalzante “Passenger”, “Mr Credit”), laddove la riconoscibile voce baritonale di Banks non è cambiata di una nota col tempo, anzi ancora più a fuoco e lodevole nelle differenti armonie.

A dire il vero ci sono altri episodi di rilievo nel disco, basti pensare all’incendiaria “Big Shot City”, la riuscitissima “Renegade Hearts”, l’ipnotica “Greenwich” e la degna traccia conclusiva “Go Easy (Palermo)”.

Certamente, il difetto maggiore risiede nella mancanza di slancio dei singoli brani i quali, il più delle volte, sembrano voler decollare ma sono adagiati su un pattern troppo sofisticato che non permette di favorire l’ambientazione che si voleva, forse, imprimere al lavoro, un lavoro che viene fuori un po’ alla volta, ed anche bene, ma senza tuttavia raggiungere, nel complesso, particolari vette.

Questa settima fatica degli Interpol doveva rappresentare, dunque, quel ritorno che i fan si aspettavano dai fasti del trittico iniziale. Evidentemente così non è stato ma risulterebbe fin troppo tendenzioso non riconoscere le qualità  o, se volete, le potenzialità  di “The Other Side Of Make-Believe”, un album con una spiccata intensità  ed emotività  che contiene ottime canzoni ma che nell’insieme si rivela solo di buona e apprezzabile qualità .

Photo credit: Ebru Yildiz