La pandemia e i lockdown hanno modificato profondamente la nostra percezione dello spazio e del tempo; abbiamo, infatti, compreso che dobbiamo viverli in maniera orizzontale, cioè in un modo più ampio, allargato e condiviso possibile, piuttosto che ridurli ad una folle e cieca escalation verticale verso modelli artificiali di bellezza, di successo, di potere e di benessere che non fanno altro che privare le persone comuni della propria individualità , nel nome di un processo di omologazione massificante che tenta di imporre, a livello globale, i medesimi stili di vita e le medesime verità , cancellando tutto ciò che è particolare, diverso, peculiare, estraneo.

Fortunatamente, nel mondo, ci sono eventi e manifestazioni che riescono ancora a salvarsi da questo meccanismo cinico e ferocemente liberista: Ypsigrock ne è un esempio concreto, poichè si tratta di un festival che, pur mantenendo il suo stretto legame con il proprio territorio di appartenenza e la sua straordinaria storia, non si richiude, egoisticamente, su sè stesso, ma tenta di aprirsi al mondo intero, proponendo un format artistico, musicale ed umano che è fortemente a misura d’uomo. La piazza di Castelbuono, sotto lo sguardo benevolo del castello dei Ventimiglia, è, infatti, lo scenario intimo nel quale un passato fatto di usanze antiche, di tradizioni millenarie, di miti ed eroi leggendari, di popolazioni, di narrazioni, di credenze e di idiomi differenti, abbraccia un presente che, attraverso la voce delle sue sonorità  elettroniche ed indie-rock, psichedeliche e glam-rock, post-punk, grunge ed alternative-rock, ci sprona a vivere assieme, a condividere le nostre esperienze e non aver più paura del futuro.

L’edizione del 2022 è stata aperta da Manuel Agnelli, con un progetto che, nonostante si basi, per lo più, su brani degli Afterhours, gli permettesse di parlare di sè, di aprire quelle porte che, solitamente, in una band così famosa, restano chiuse e mostrare quali sono state le molle emotive, le percezioni introspettive, i dubbi angoscianti e persino le fobie che hanno permesso a queste particolari narrazioni sonore di germogliare. Canzoni che, il più delle volte, nascono da domande che non hanno ancora avuto una risposta e che continuano ad echeggiare nella nostra anima, da una Varanasi all’altra, consapevoli, nel frattempo, di aver perduto un’occasione straordinaria. La rete, infatti, ci ha consentito di abbattere i vecchi sistemi, ma, purtroppo, come sosteneva anche Pasolini, non siamo riusciti a costruirne un nuovo e migliore sistema, a meno che non vogliamo assumere il capitalismo come sistema culturale di riferimento. E così continuiamo a brancolare nel buio più fitto, scegliendo, in galassie e galassie di byte, le verità  e le menzogne che ci fanno più piacere, che ci fanno sentire più forti e che, magari, ci fanno credere di essere più felici.

Ed ecco, allora, che il baraccone dei Flaming Lips irrompe, con la sua pioggia di coriandoli, i suoi fasci di luci, i suoi pupazzi gonfiabili e le sue bolle, tra i nostri pensieri, tentando di liberarli dall’attrazione gravitazionale delle tante nevrotiche ossessioni con cui riempiamo, continuamente, le nostre esistenze, nell’illusione che una vita felice debba essere, per forza, una vita piena di impegni, di appuntamenti, di riunioni, di relazioni sociali che si tramutano, necessariamente, in affari, in opportunità , in rapporti costi-benefici, in vantaggi materiali e in tutta una serie di compromessi opportunistici contro i quali la band americana scaglia la propria irruenta, acida, stravagante e fantasiosa energia psichedelica, aprendoci, di conseguenza, le porte di un mondo che abbiamo abbandonato da bambini. I Flaming Lips sono il tornado che si abbatte sulle nostre minuscole e identiche prigioni virtuali e ci conduce altrove, in una dimensione nella quale non esiste più un’unica verità , un’unica scelta, un’unica direzione da dover seguire.

Il desiderio di liberarsi dagli attuali schemi sociali ed economici esplode, in tutta la sua veemente, cruda e tagliente profondità , nell’esibizione degli Yard Act, forza motrice punkeggiante sorta dalle ceneri del mondo post-pandemico e post-Brexit, con l’obiettivo di permettere ad altre idee, ad altre parole, ad altri pensieri di circolare, in Inghilterra e nel mondo, senza che i servizievoli ed aggressivi cani da guardia delle lobby di potere sovranazionali riuscissero a zittirle e cancellarle, obbligandoci, per sempre, a consumare, sui nostri schermi luminosi, le stesse notizie, gli stessi articoli, le stesse opinioni, le stesse teorie, le stesse ricostruzioni ed interpretazioni dei fatti.

E se, almeno per una volta, tentassimo di andare oltre quella che è una assimilazione automatizzata e narcotizzante di bugie e luoghi comuni prodotti ad arte? E se il dance-floor diventasse la nostra realtà  migliore? E se la passione umana, liberata dalle sonorità  elettroniche, accattivanti e coinvolgenti, dei 2ManyDjs, diventasse il canale relazionale con il quale interpretare ciò che succede attorno a ciascuno di noi?

Probabilmente avremmo un’arma in più, a nostra disposizione, per affrancarci da quella condizione culturale di subordinazione – di stampo reazionario, paternalista e maschilista – che fa sì che “diversità ” diventi, in pratica, un sinonimo di abominio, di inferiorità  o di debolezza, costringendo uomini e donne, sin da bambini, ad accettare un’educazione conservativa che, oggi, è sempre più pericolosamente sbilanciata verso un miscuglio di orgoglio, di nazionalismo, di sovranismo e di egoismo che non ha risolto i problemi di lavoro o sicurezza delle persone comuni, ma ha solamente risvegliato mostri che credevamo di aver definitivamente lasciato nel Novecento. Purtroppo, la cosa più paradossale è che continuiamo a ragionare in piccolo, sempre più in piccolo, affidandoci a classi politiche colluse ed impreparate che pensano di risolvere questioni globali affidandosi a prospettive che, invece, sono esclusivamente e banalmente locali.

Un’incapacità  evidente quella della politica mondiale che viene superata, spesso, dall’arte e dalla musica. Ypsigrock è nato a Castelbuono, in Sicilia, e continua a nutrirsi della propria storia, della propria cultura e delle proprie tradizioni, facendolo, però, in un’ottica di condivisione globale che porta, tra le Madonie, band e artisti diversi, senza alcuna chiusura o preclusione intellettuale, nonchè un pubblico estremamente eterogeneo, che, per quattro giorni, ha la possibilità  di vivere in un ambiente nel quale non esiste alcuna dannosa rivendicazione di priorità  assoluta; è questo, infatti, il vero male dal quale nascono slogan come “America First” o “prima gli Italiani” o movimenti come la Brexit, ovvero movimenti che incitano le persone a chiudersi totalmente nei confronti del mondo esterno, percepito come qualcosa di dannoso, minaccioso, cattivo, abietto ed ostile.

Qualcosa a cui i Diiv riescono a dare la giusta consistenza sonora, un muro grunge acido che si abbatte, con i suoi bassi penetranti e possenti, sul pubblico, mostrando come può essere facile restare indietro, come può essere facile alienarsi ed essere additato, di conseguenza, come il punto debole, come un pericoloso nemico, come un peso inutile per la società . Una società  che non ama affatto i tornadi e che si trova a proprio agio con un’unica accordatura, tra i confini rassicuranti del proprio piccolo Kansas, in compagnia degli stereotipi con cui viene, quotidianamente, sfamata dai propri paranoici padroni, streghe e vampiri che si mantengono in vita succhiando le nostre passioni e i nostri sogni, privandoci del nostro tempo e dei nostri spazi ed incutendoci paure assurde riguardo al nostro domani e al nostro futuro.

Ma del futuro, come detto, non bisogna più avere paura, perchè il futuro è già  nostalgia.