Quando ci si approccia a nuovi lavori di artisti che, almeno nel loro ambito, hanno fatto la storia, diventando dei paradigmi per altri venuti in seguito, si può correre il rischio di valutarli per la grandezza che si portano dietro e non per l’oggettivo valore del disco in questione.

Una considerazione che potrebbe valere anche per gli scozzesi The Orchids, alfieri di un chamber pop che ha contraddistinto gli anni gloriosi della Sarah Records, label unica nel proporre artisti dalla spiccata sensibilità .

Al contrario di molti nomi che però hanno continuato a registrare album col pilota automatico, annacquando di volta in volta la proposta originaria, gli Orchids non hanno smarrito in tanti anni di carriera una vena compositiva di elevata caratura.

Infatti loro, dal meraviglioso esordio avvenuto con “Lyceum” (eravamo nel 1989) ad oggi, seppur con un periodo di latitanza di tredici anni (tanti sono quelli intercorsi dal 1994 fino al 2007, anno del ritorno discografico con “Good to Be a Stranger”), hanno mantenuto a un alto livello gli standard musicali, tenendo fede al proprio credo musicale senza apportare particolari innovazioni stilistiche.

Non si tratta certo di pigrizia compositiva, attenzione, sfido chiunque infatti a mettersi all’ascolto per la prima volta del nuovo “Dreaming Kind” senza rimanere affascinati dalla delicatezza delle trame, dalle melodie cristalline e dai momenti sognanti e malinconici che emergono copiosi in queste tredici tracce inedite.

Fosse di un gruppo contemporaneo, ancora oggi nel 2022, si parlerebbe a ragione di un album magari non originale ma comunque assai godibile, fresco e ammaliante, e dovendo essere intellettualmente corretti bisogna pur ricordare e tener conto in fase di recensione che questo mood, queste suggestioni le hanno in pratica inventate loro; dal momento che questo archetipo musicale viene innestato mirabilmente in canzoni nuove ancora ispirate e sentite nel profondo, non si può non assecondare la loro voglia di esserci ancora e di continuare imperterriti su questa strada.

Al solito, quindi, i Nostri alternano in maniera pressochè perfetta momenti romantici e soft ad altri più movimentati e ballabili, preferendo la pulizia degli arrangiamenti e dei suoni rispetto all’impatto ritmico, ma ciò non toglie che una canzone come “Didn’t We Love You” riesca a colpirci soprattutto per via di un sound sbarazzino e grintoso.

E’ un esempio mirabile, quello dell’opening track in questione, della capacità  della band di Glasgow di coniugare esigenze diverse ma sovrapponibili, e il gioco rimane efficace anche nella successiva “Limitless #1 (Joy)” ““ che ha un contraltare più struggente nella conclusiva “Limitless #2 (Hurt)” ““ che accentua un lato malinconico della loro proposta.

I toni rallentano una prima volta all’altezza della terza traccia “What Have I Got to Do”, che si basa su una chitarra acustica ingentilita dall’incursione delicata dell’elettronica, ma si rinvigoriscono nuovamente nella pimpante “This Boy Is A Mess”, facendo inoltrare l’ascoltatore in territori placidi e accoglienti.

Ascoltando le varie canzoni ci si sente avvolti da un calore rassicurante, e anche se James Hackett e soci non disdegnano di affrontare temi personali anche dolorosi (ad esempio in “Something Missing” ) lo fanno prediligendo sempre una forma pop abile a nascondere le eventuali asprezze.

E’ però dove si concedono slanci intimistici e nostalgici che si riscontrano i picchi emozionali del disco, in brani come “A Feeling I Don’t Know” ed “Echos”, con i sentimenti che vengono soltanto evocati, mentre quando sono esposti in maniera esplicita, come accade nella frizzante “I Want You I Need You”, si rischia inevitabilmente di cadere un po’ nel melenso, anche se in fondo il tutto appare così naturale e spontaneo che gli si può ben perdonare l’eccezione.

Non si può chiedere certo a un gruppo come gli Orchids di ridisegnare un universo pop come accaduto nelle loro prime esperienze discografiche, ma già  che a distanza di più di trent’anni dalla prima volta ci regalino ancora dei piccoli gioielli d’autore è una cosa rigenerante, che fa bene alle nostre orecchie e al nostro cuore.