Generalmente quando il frontman di una band decide di intraprendere una carriera solista (mantenendo comunque quella originale) non è mai un bene. Al di là  delle teorie di complotto che vanno a pensare ad un possibile scioglimento del gruppo, i progetti solisti fanno sempre fatica a staccarsi completamente da quella idea di suono tipica, invece, del gruppo originale.

Il caso in questione è quello appunto di Marcus Mumford, frontman dei Mumford & Sons (ora senza banjo, ciao Winston), che qualche mese fa è apparso sui social dimagrito e in canotta per presentare il suo primo album da solo dal titolo “(self-titled)”. Originale, no?

Ammetto che la band di “The Cave”, “I Will Wait” e “Believe” l’ho sempre di più accatastata nel grande armadio di quelle realtà  musicali un po’ perse nel tempo, però ero molto incuriosito da questo nuovo percorso e quindi mi sono detto che ci dovevo riprovare. Dovevo sperare in un qualcosa di originale così come lo erano stati i Mumford agli inizi. Cazzo che errore.

Non c’è una vera identità  e questo mi fa male. Si vede che Marcus vacilla tra un passato glorioso ed un presente incerto. Non solo per i testi e le tonalità  vocali che si ripetono costantemente, ma soprattutto per il sound. Ha cercato di mischiare quello che i fan hanno sempre adorato della band, ovvero il lato campagnolo degli esordi e quello all’inizio poco apprezzato e poi accettato di ere come “Wilder Mind” o “Delta”.

Facciamo degli esempi. Partendo dalla prima canzone, “Cannibal”, la mente non può non tornare al singolo “Believe”: un intro dolce, che accompagna assieme alla voce ad un crescendo che poi esplode. Se qua non ci sono chitarre elettriche, come nella prima citata canzone, comunque è forte la presenza di acustiche e di questa vocalità  spezzata e lacerata dal dolore tipica del cantante.

“Grace”, seconda traccia, è a sua volta una b-side di “Delta” in quanto le armonizzazioni, gli accordi e via dicendo sono ricorrenti nell’ultimo album del gruppo. “Dangerous Game” è forse quella un pochino più interessante di tracce, forse perchè featuring Clairo che riesce a dare quel tocco in più di originalità  che serve in questo brano.

Le ultime tre canzoni vedono tre grandi collaborazioni: “Go In Light” con Monica Martin; “Stonecatcher” con Phoebe Bridgers; “How” con Brandi Carlile. Tra le tre, rullo di tamburi, quella meno interessante perchè monotona e scontata è proprio la seconda mentre risalta la prima, forse per le influenze un po’ soul e R&B presenti.

Non ritengo questo disco una grande riuscita. Se l’obiettivo era quello di distaccarsi dai Mumford & Sons per farsi identificare anche come artista singolo, il prodotto finale che si è creato non è altro che un mero successore del quarto e ultimo album della band. O, forse, un LP di b-sides scartate fin dall’inizio.   Mi sa che ci devi riprovare, Marcus.