Mi sono approcciato al nuovo album dei Whitney (band di Chicago capitanata dai fondatori Max Kakacek e Julien Ehrlich) con ancora nelle orecchie le delizie pop di “Light Upon the Lake”, fulgido esordio datato 2016, ma non avevo ben considerato l’influenza, magari inconsapevole, che avrebbe avuto su di loro l’esperienza di un album di cover pur ben fatto come “Candid” ““ loro ultima prova discografica, pubblicata due anni fa ““ nella quale rivisitavano brani (tra l’altro molto particolari) gravitanti per lo più nella loro orbita indie-folk.

Fu quello un disco in cui in realtà , dovendo maneggiare pezzi altrui, si trovarono nelle condizioni di sperimentare, e questo acuì in pratica, a mio modo di vedere, una tendenza alla semplificazione musicale in virtù di un ascolto se vogliamo ancora più “leggero”.

Questa tendenza all’easy listening viene se possibile incrementata in questi nuovi dodici brani che poco davvero hanno a che spartire con quelli che a inizio carriera li avevano imposti tra i nomi nuovi da seguire con la massima attenzione.

Non sto dicendo che il nuovo “Spark” sia un disco brutto, tutt’altro, è che mettendovisi comodi all’ascolto ““ e la cosa a pensarci bene era piuttosto chiara sin dai singoli anticipatori ““, traccia dopo traccia il disco scorre via senza lasciare un segno profondo al suo passaggio.

Mi duole dirlo, ma un brano come quello d’apertura, ad esempio, lascia piuttosto perplessi: “Nothing Remains” ha una patina davvero troppo commerciale, sembra musica da “supermercato”, con i beat al posto giusto, l’arrangiamento contemporaneo e le voci così gentili che paiono fungere da dolce sottofondo.

Una partenza estremamente soft, carina ma assai poco fascinosa per chi in passato aveva fatto del minimal un veicolo importante per comunicarci le proprie emozioni e la propria arte.

Le cose migliorano dalla traccia successiva, la più solida e melodica “Back Then” ma al terzo indizio, rappresentato dal brano corrispettivo in scaletta, vale a dire “Blue”, abbiamo abbastanza chiara la volontà  dei Nostri di perseguire su questa strada: canzoni ben congegnate, dal taglio soul-pop, strutturate con suoni per lo più morbidi e digitali.

Non resta quindi che mettersi alla ricerca di quei dettagli che, nel contesto di un album molto omogeneo a livello di scrittura e sonorità , possono fare la differenza, ed ecco quindi che diventa possibile muoversi cadenzati al ritmo agro-dolce di “Lost Control”, ammaliarci soavemente tra le pieghe dell’onirica “Terminal” o farsi cullare dalle malinconie di fine estate di “Twirl”, che contende alla romantica “Heart Will Beat” e alla conclusiva “County Lines” lo scettro di miglior canzone della raccolta.

Mi convincono decisamente meno le virate funky-dance del singolo “Memory” e la sfacciata attitudine pop di “Real Love”, perchè è un attimo per la leggerezza farsi frivolezza, ma noi di Indie For Bunnies che seguiamo questi ragazzi dall’inizio sappiamo bene che nel loro dna c’è invece un universo musicale raffinato e sensibile.

Occorrerà  attendere la prossima mossa discografica per capire se i Whitney abbracceranno la causa mainstream o riprenderanno a dipingere la galassia indie con acquerelli più vivaci e fulgidi rispetto a quelli utilizzati per comporre “Spark”.

Credit Foto: Tonje Thilesen