In quel di High Green, sobborgo a nord di Sheffield, la campana del bar annuncia il last order mentre in sottofondo tra il vociare degli avventori suonano le note di “Red Light Indicates Doors Are Secured” (dall’album “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”) e per i quattro ragazzi non c’è un minuto in più da perdere; ancora un paio di pinte e poi via direzione centro a Sheffield, nella zona pedonale di Fargate, per proseguire la serata attorno ad uno dei piccoli tavoli tondi neri presenti nell’elegante cocktail bar dove finger food e old fashioned sostituiscono birra e noccioline. I volti dei ragazzi nella penombra della fioca luce della lampada di quel tavolino si mostrano incantati con l’inizio delle prime note jazz-pop di “Jet Skis On The Moat” che danno il via all’esibizione prevista per la serata. E che serata.

Gli Arctic Monkeys, lasciati per la seconda volta in quattro anni le pinte sul bancone hanno continuato a nutrirsi di quell’atmosfera raccolta ed intima creata con “Tranquility Base Hotel & Casino”, regalandoci ancora una volta qualcosa di meraviglioso, a tratti inafferrabile, continuando con intelligenza un percorso artistico virtuoso e allo stesso tempo signorile. Farsi ammaliare dal sound cinematografico della title track con i suoi avvolgenti violini o dalla nostalgia della successiva “Big Ideas”, salutata nel finale dalle sei corde di Jamie Cook, diventa un’esperienza da vivere tutta d’un fiato.

Prodotto dal solito James Ford e registrato tra il monastero Butley Priory di Suffolk, i RAK Studios di Londra e La Frette di Parigi, “The Car” non solo consente al quartetto britannico di raccogliere i germogli del precedente lavoro ma a tratti lo sovrasta quanto a raffinatezza e accuratezza.

Certamente molti si aspettavano un ritorno alle origini o quantomeno alle sonorità  di “AM”, ma per il settimo sigillo la band ha affrontato senza timore una fisiologica maturità  abbracciando archi (tanti), pianoforte e tastiere, immergendosi in un tripudio di arrangiamenti fuori dal comune e sorretti dal riflessivo e illuminato songwriting del deus ex machina Alex Turner.

Assolutamente errato tuttavia pensare che sia un album “solista” di Turner, il quale indubbiamente sottoscrive con il suo carisma la maggior parte degli episodi ma non offusca le doti di Matt Helders, del citato Jamie Cook e di Nick O’Malle, i quali curano con minuziosità  e precisione il pattern su cui si muove l’intera opera.

Anticipato dai tre singoli “There’d better be a mirrorball”, dalle trame sospese e accoglienti, “Body paint” intriso da un romantico appeal e la seventies “I ain’t quite where I think I am”, con i cambi di ritmo e wah wah di Cook ad   accompagnare l’ispirato Tuner, il nuovo lavoro sulla lunga distanza dei ragazzi del South Yorkshire non entra in maniera diretta ed immediata nell’ascolto ma ha bisogno di un repeat,  magari in modalità  shuffle, per coinvolgere menti e cuori. Quando ciò avviene, “The Car” diventa lisergico e magnetico come nell’inquietante mellotron che guida una solenne  “Sculptures Of Anything Goes”, dove i falsetti di Turner brillano nell’oscurità  del brano, o in “Hello You” dove tutti gli elementi della band si uniscono in un liason pressochè perfetto.

Man mano che gli ascolti si fanno ripetuti anche le melodie escono da quell’apparente climax monocorde e si disvelano con garbo e gradualità . Con le cuffie indosso, poi, si enfatizza la cura dei dettagli e l’ascolto si trasforma in un viaggio suggestivo e appagante. Non ci sono hit all’interno del disco e nemmeno ha senso cercarle, ma ogni singolo brano si caratterizza per la sua peculiarità  aggiungendo un tassello ad ogni ascolto e raggiungendo probabilmente il suo apice nella breve “Perfect Sense”, closing track incantevole avvolta da trame orchestrali coordinate – come per l’intero disco – dall’esperta direttrice  Bridget Samuels. Le malinconiche e jazzistiche note acustiche di “Mr Schwartz” completano la mirabile tracklist.

Sicuramente “The Car”, come “Tranquility Base Hotel & Casino” prima di lui, è un disco destinato a creare divisioni all’interno della nutrita cerchia di fan e addetti ai lavori, tra chi non condivide questa “deriva” preferendo dunque un sound più energico e di impronta più “chitarristica” e chi, invece, ha accolto in toto questo nuovo elegante percorso di Turner e soci.

Una cosa è certa, e che va oltre l’inclinazione di ognuno di noi; il tocco di classe che il quartetto britannico è stato capace di imprimere al prodotto Arctic Monkeys è davvero sublime. Se in principio questo mutamento si è rivelato del tutto inaspettato ma oltremodo coraggioso, si è trasformato poi in qualcosa di autentico, terreno, concreto e sebbene qualcosa inevitabilmente sfuggirà  ai ricordi molto altro verrà  tramandato ai posteri.

Credit Foto: Zackery Micheal