La fine, per ora, non è quella della storia lunga e fortunata degli Slipknot, ma del contratto discografico che dagli esordi li legava alla Roadrunner Records, una delle label più importanti di sempre in ambito metal che già  da qualche anno sta attraversando una sorta di crisi di identità  dopo i fasti “novantiani” con Sepultura, Fear Factory, Life Of Agony, Type O Negative e Machine Head (tra i tantissimi). E così, dopo più di due decenni di proficua collaborazione, l’etichetta nata in Olanda nel 1980 perde la band di Des Moines, la sua vera e propria gallina dalle uova d’oro (nel roster restano i Nickelback, però”…), pronta a svignarsela verso altri lidi.

I nove dell’Iowa chiudono gli accordi con un’ultima pubblicazione e, senza nascondere un certo sollievo per l’ormai celebrato divorzio, abbandonano la nave con questo “The End, So Far”, settima fatica in studio che arriva tre anni dopo il convincente “We Are Not Your Kind”. Iniziamo subito col dire che, se siete estimatori degli Slipknot più melodici e rassicuranti (alla loro maniera, à§a va sans dire), non potrete non apprezzare un disco che, musicalmente parlando, non si sposta di una virgola dal collaudato modello del best seller “Vol. 3: (The Subliminal Verses)” del 2004.

Inutile girarci intorno: gli Slipknot non sono più le  misteriose e spaventose bestie nu metal del biennio 1999/2001. La band è ormai una macchina macina soldi che, tra tournèe negli stadi e non poche hit radiofoniche (“Duality”, “Before I Forget”, “Psychosocial””…), è riuscita a fare una piccola rivoluzione offrendo al pubblico delle arene una sua personalissima visione di musica estrema. Peccato non abbia più nulla di realmente interessante da dire; prova sempre a rinnovarsi, ad aggiungere qualche minuscolo elemento al quadro, ma ormai gli sforzi sono così limitati da essere pressochè impercettibili.

“The End, So Far” non delude le aspettative (che non erano comunque alle stelle) ma certifica la fine degli Slipknot come entità  rilevante dal punto di vista creativo. Di qui in avanti, con ogni probabilità , i dischi del gruppo saranno solo ed esclusivamente una scusa per partire in tour e dare in pasto ai fan i classici dei primi dieci anni di attività . Speriamo di sbagliarci ma l’impressione è proprio questa.

Gli ingredienti alla base del piatto sono sempre gli stessi ““ tanto è vero che, per presentarveli, recupero con qualche piccola modifica la “lista della spesa” che feci ai tempi della recensione di “We Are Not Your Kind”: alternanza tra voci pulite e parti urlate; solidi intrecci ritmici tra la batteria di Jay Weinberg e le percussioni di Shawn “Clown” Crahan e Michael “Tortilla Man” Pfaff; riff affilatissimi da parte dei chitarristi Mick Thomson e Jim Root, in costante bilico tra la tradizione del thrash e la modernità  di un alt metal figlio dei Korn; ruolo sempre più defilato ma mai secondario della coppia “elettronica” degli Slipknot, ovvero il turntablist Sid Wilson e il tastierista/addetto ai sampler Craig Jones.

Corey Taylor, che pure viaggia verso il mezzo secolo di età , è ancora un signor cantante: fa la sua porca figura nei brani più melodici (“Yen”, “Medicine For The Dead”, “De Sade”) ma come al solito brilla quando si squarcia l’ugola a forza di brutali urla a metà  strada tra growl e screaming. Le devastanti “The Chapeltown Rag”, “Hive Mind”, “Warranty” e “H377” sono quanto di meglio abbia da offrirci “The End, So Far”, un album apprezzabile sotto molti aspetti ma di certo non indimenticabile.

Qualche godibile sorpresa nella grandiosità  sinfonica di “Finale”, nelle atmosfere diabolicamente blueseggianti di “Acidic” e nella chiacchieratissima “Adderall”, un’elegante semi-ballad farcita di cori chiaramente influenzata dai Radiohead e dal post-rock. Per il resto nulla di eclatante da segnalare ““ a esclusione dell’ottima prova del bassista Alessandro Venturella che, in più di qualche brano, si conquista un inatteso ma meritato ruolo da protagonista.

Credit Foto: Jonathan Weiner