I Wire di Colin Newman legittimamente si sono conquistati un posto d’onore nella storia del rock, pur non godendo di grandi riscontri sul piano dei numeri: davvero poche risultano essere infatti le copie dei loro dischi venduti in tanti anni di carriera.

Eppure appartengono a quel novero di gruppi, come ad esempio i Velvet Underground, che sono riusciti a lasciare una scia profonda dietro di sè, andando a influenzare e ispirare tutta una serie di artisti venuti anche decenni dopo, i quali non hanno remore a riconoscerne la grande importanza.

E allora, nei giorni che coincidono con la pubblicazione del loro primo, epocale disco, intitolato “Pink Flag” non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione di omaggiarlo a distanza di ben 45 anni da allora.

Era quindi il 1977 quando la band mosse i primi passi e, nel giro di pochi mesi, da quando il nucleo originario si formò in quel di Londra a quando si fecero notare dalla Harvest/EMI (la stessa etichetta che fece consacrare i Pink Floyd), erano già  pronti a irrompere nelle scene con canzoni che non nascondevano un’affinità  diretta con ciò che andava per la maggiore al periodo (mi riferisco ovviamente al punk), ma ugualmente sapevano oltremodo distinguersi lasciando presagire quegli scenari musicali poi identificabili nelle correnti post-punk e new wave.

Già  perchè del punk i Nostri (al leader Colin Newman si unirono il chitarrista Bruce Gilbert, il bassista Graham Lewis, autore anche dei primi testi, e il batterista Robert Gotobed) mantenevano sostanzialmente un approccio musicale, fatto di note e melodie “semplici”, e una naturale irruenza nell’imbracciare gli strumenti (pur essendo meno giovani dei loro colleghi) ma erano certamente diversi per background e per l’abilità  di incanalare un’eguale urgenza creativa in canzoni se vogliamo più lineari e compatte.

Nascono non per strada ma nel mondo accademico, sono tutti studenti, e in particolare Newman, che ne è il principale motore, ancora prima di pensare a un suo gruppo è già  attratto dalle varie forme artistiche e da certa musica sperimentale, condividendone l’amore con Brian Eno e altri colleghi.

Anche gli altri futuri membri dei Wire sono assorbiti da attività  artistiche di varia natura, Lewis ad esempio è già  ben attivo nel mondo della moda, Gilbert in origine è un tecnico audiovisivo; unendosi con Newman trovano un terreno comune dove poter dire la loro, inserendosi in un humus culturale vastissimo e assai incline ad accogliere nuove proposte musicali.

Il produttore Mike Thorne si innamora di loro, di quelle esecuzioni scarne, taglienti e velate da una dissacrante ironia, scritturandoli in pratica all’istante e assecondandone anche gli istinti più “anarchici”, che tradotti in musica significa comprendere pure i vari brani non sense inseriti in scaletta, e quelle canzoni che nella sua fulminea brevità  appaiono quasi come delle semplici bozze.

Ma tutto in “Pink Flag” risulta funzionale ed essenziale per capire meglio l’identità  di questo nuovo gruppo, che in soli 36 minuti scarsi confeziona un disco che alla fine consta di ben 21 titoli, la maggior parte dei quali non arriva ai due minuti di durata.

L’inizio è un monito potente e abrasivo, sforando da poco i tre minuti “Reuters” si discosta dal resto della scaletta ma lo fa soprattutto in virtù di un apparato narrativo più o meno identificabile nella condizione di vita a cui è sottoposto un corrispondente di guerra. Una parvenza di tematica sociale, alla loro maniera, nel contesto di un disco che invece viaggia libero secondo il gusto folle di Lewis che gioca con i titoli bizzarri e alcune trovate ironiche, come nella didascalica “106 Beats That”, un gioco o poco più sul fatto di poter scrivere utilizzando cento sillabe.

Il disco a onor del vero presenta delle variazioni precise a livello stilistico rispetto al punk dei coevi Sex Pistols, sempre tirati in ballo al periodo per ogni gruppo che si affacciasse sulla scena musicale: pensiamo alla melodia cristallina di “Fragile”, alle obliquità  di “Strange” che, come la più immediata “Three Girl Rhumba” ha un ritmo cadenzato segnato da un passo marziale, o alle felici divagazioni pop di “Feeling Called Love”, dal piglio sghembo e irresistibile, per non dire di “Lowdown” i cui puntuali stop and go hanno fatto letteralmente scuola.

Se dovessimo esemplificare però i Wire in due soli episodi caratteristici della loro multiforme visione del punk come arte, allora occorrerebbe soffermarci inevitabilmente sui vortici ruggenti di “Ex Lion Tamer” e sui saliscendi emotivi della briosa “Mannequin”, quella che per prima li rivelò come ensemble da tenere assolutamente d’occhio.

Nel corso degli anni sono numerosi i gruppi che li hanno omaggiati ricavandone delle ottime cover, rinverdendone quindi il nome e facendoli in qualche modo riscoprire.

A distanza di 45 anni le canzoni di questo disco con l’iconica bandiera rosa in copertina sanno ancora colpire al primo ascolto, trapassandoci come schegge impazzite di potenza e creatività . Lunga vita a Colin Newman e soci!

Wire ““ Pink Flag
Data di pubblicazione: 2 dicembre 1977
Tracce: 21
Lunghezza: 35:37
Etichetta: Harvest/EMI
Produttore: Mike Thorne

Tracklist

1. Reuters
2. Field Day for the Sundays
3. Three Girl Rhumba
4. Ex Lion Tamer
5. Lowdown
6. Start to Move
7. Brazil
8. It’s So Obvious
9. Surgeon’s Girl
10. Pink Flag
11. The Commercial
12. Straight Line
13. 106 Beats That
14. Mr. Suit
15. Strange
16. Fragile
17. Mannequin
18. Different to Me
19. Champs
20. Feeling Called Love
21. 12 X U