Back to Soul !  Si completa con questo nuovo quinto album la maturazione artistica di Joan Wasser, alias As Police Woman.

Colei che è riuscita a sventare, seppure in età  matura, il pericolo di rimanere etichettata in eterno come la fidanzata di, la violinista di o la corista di, ha saputo far emergere la sua straordinaria personalità  e talento prova dopo prova e questo “Damned Devotion” rappresenta a pieno titolo la consacrazione definitiva.

Un ritorno al soul dunque (dopo l’esperimento stravagante/sperimentale con Benjamin Lazar David di “Let It Be You”), ma non solamente inteso come quel genere musicale che la nostra Joan ha abbracciato in maniera devota e rispettosa rielaborandolo negli anni con sfumature di avanguardia e libertà  espressiva tipica della scena alternative/indie. Piuttosto è il significato letterale stesso di questa parola che Joan vuole mettere orgogliosamente in risalto.

La chiave di lettura di questa ultima fatica è racchiusa infatti tutta nel suo titolo, rivelativo dell’essenza appunto della sua anima.  
E’ quell’attraversare la vita, come lei stessa ha dichiarato nelle recenti interviste che hanno accompagnato l’uscita dell’album, dedicandosi completamente agli altri, vivendo le relazioni umane/sentimentali e gli stati d’animo appassionatamente, con una spontaneità  gioiosa, libera da condizionamenti e pregiudizi.
Devozione sì, ma assolutamente dannata ! Non deve essere colto nei testi delle 12 tracce (ad eccezione di “The Silence” e “What Was It Like” che trattano 2 tematiche completamente differenti) un accento di condanna, ma piuttosto una rassegnata e serena consapevolezza di un modo d’essere (If there was a warning bell, I’d know. But all I hear is music, soft and low. I never see it coming / Se ci fosse un campanello d’allarme, lo saprei. Ma tutto ciò che sento è musica, morbida e profonda. Non lo vedo mai arrivare ci confessa in quello che è il primo singolo uscito “Warning Bell”).
La passionalità  con la quale Joan si connette alle persone ed alle esperienze in generale della vita impregna con energia e spudorata sincerità  l’intenzione dell’intero album, che racconta la vita sul filo della poesia, ora gioia sublime, ora follia stupita, ora sofferenza malinconica, ma tutto ciò pervaso di impetuosa densità , spesso sopra le righe, ma sincera e libera.

Con i primi 2 brani, “Wonderful” e “Warning Bell”, Joan sembra volerci riportare alle atmosfere dei primi 2 suoi album con raffinate e malinconiche ballads che si posano meravigliosamente su tappeti minimalisti di tastiere e percussioni digitali. Con “Tell Me”, rispettivamente terzo brano in scaletta e terzo singolo estratto, si scelgono invece sonorità  vintage in stile classico alla Ann Peebles (consiglio, guardatevi il video ironico e terapeutico della canzone).
Dal quarto brano si alza invece decisamente l’asticella compositiva. Ne è preludio l’incedere a metà  tra funky e hip hop in stile Prince di “Steed (for Jean Jenet)”, con cori, percussioni e un sax ossessivo ad impreziosire il brano.
L’uso massiccio di synth che ritroviamo nella title track, precede quello che è il punto più alto dell’album e forse di tutta l’intera discografia della nostra Joan, costituito da 2 brani straordinari come “The Silence” e “Valid Jagger”. Nel primo, ispirato alla Woman’s march del gennaio 2017, cita Leonard Cohen che a sua volta citava Gialal al-Din Rumi, poeta mistico duecentesco ricordandoci che “I’m told that wounds are where the light gets  in/mi dicono che attraverso le ferite passi la luce” e ci sorprende con continui cambi e inserti sonori in quello che è un vero e proprio mantra dai toni funky ma in una modalità  anarchica.
La seconda, invece, che nella parte iniziale è contemporaneamente una elegante e solenne ballad ci conduce inaspettatamente in paradiso al minuto 2:40 grazie ad una sublime apertura di arpeggi in loop (lo strumento utilizzato è un omnichord) che ci saremmo aspettati di trovare in un album di Bjork.
C’è ancora molto altro, in questo prezioso lavoro, come l’incedere solenne del pianoforte di “Rely On” che ricorda quello dei fiati della “Feeling Good” di Nina Simone oppure quella meravigliosa e struggente ballata dedicata al padre scomparso che è “What Was It Like” (a proposito, i fiori che Joan ci mostra in copertina sono per lui) e che richiama lo stile di una tra le migliori rappresentanti della nuova scena cantautorale indipendente americana, Sharon Van Etten.
C’è poi la la ritmica jazzata e intrigante di “Talk About It Later”, quella ipnotica e sognante in stile Damon Albarn versione “Everyday Robots” di “Silly Me” e il finale di “I Don’t Mind” che coniuga in maniera perfetta una base al limite dell’industrial e una melodia dai toni, guarda caso, jeffbuckleyani.

Vogliamo essere chiari che si tratta un disco impegnativo, non per nulla di facile e immediato accesso e che cresce continuamente di ascolto in ascolto.
Iniziate perciò a versarvi un buon bicchiere di vino, abbassate le luci, cuffie sulle vostre orecchie e perdetevi soavemente nell’universo di Joan oltre che nei vostri intimi pensieri. Ma come un vino di primo livello lo richiede, lasciatelo decantare il tempo che merita.

Credit Foto: David A. Fitschen