NOTA DELL’AUTORE: Trattasi eccezionalmente di pezzo enciclopedico. Astenersi i deboli di concentrazione, fighetti ed ermellini.

INTRO (facoltativa ai fini dell’informazione musicale): Parentesi tonda aperta. Niente. Parentesi tonda chiusa. Dentro puoi metterci quello che vuoi, anche tutta la tua vita. Io per il momento ho deciso di chiuderci i crampi che per sette cazzo di anni mi hanno tormentato l’esistenza a intervalli regolari. Alla radio qualcuno canta che non gli passa il mal di stomaco. Signore a cui non passa il mal di stomaco, ha mai provato l’ebrezza di due gastroscopie consecutive con annesso prelievo (mediante raschiamento) di una piccola parte di parete intestinale? E una bella colonscopia? Beh io gliele consiglio entrambe e intanto la invito a fare un giro in camera mia, magari di notte, e gettare uno sguardo sotto le lenzuola mentre mi contorco dal dolore fino alle 4 del mattino. Passo avanti. Guardo lo specchio e rido, mentre sono piegato in due da una stretta feroce. L’intestino non è più mio amico da un bel po’. Rido perchè scrivo e non sono nessuno. Attualmente se possibile valgo addirittura meno dell’Arturo Bandini degli inizi nel libro di John Fante. Si, quello che s’ingozzava d’arance. Io neanche posso sfiorarle le arance. Io volo nell’etere. Voi no. Io non esisto. Voi si. Eppure la musica dell’impero mi arriva con nitidezza.

NOTA DEL VOCABOLARIO:
SWAGGER/ andatura burbanzosa; andatura spavalda.
SWAGGERER/ spaccone

PEZZO DI SCRITTURA LIPIDICA (180 Kg netti): La terza ondata sembra essere quella buona! A cavallo tra il 2001 e il 2002 il mondo ha conosciuto la prima ondata di gruppi rock che hanno riportato alla ribalta le chitarre elettriche come non accadeva da tempo. Accantonate quelle acustiche, le stramberie psichedeliche anni sessanta e l’informe pop melenso da ascoltare di nascosto sotto al letto come perfetti sfigati, apparvero i paladini americani del garage, con tanto di capigliature alla moda, vestiti attillati, birre onnipresenti e sonorità  scartavetranti. Quei gruppi (che adesso sono in giro a promuovere il terzo album), non bissarono il successo del loro debutto, facendo rimanere pubblico e critica con un gusto amarognolo in bocca. Stiamo parlando ovviamente (su tutti) di Strokes, Vines e Black Rebel Motorcycle Club, che sfornarono un secondo disco carino ma esattamente non all’altezza del predecessore. Poi arrivò la seconda ondata, stavolta dall’altra parte dell’oceano e si cominciò a parlare sempre più insistentemente di British Rock Renaissance (sapete gli inglesi, la pioggia, la birra e le loro frustrazioni piene di ‘i’ del tipo: Nioi abbiaimo aivuto lai miglioir roick baind di tiutti i teimpi, figuiriamoci se noin riusciamo a faire meiglio di due accoirdi e meizzo”…). Ecco quindi i vari Libertines, Cooper Temple Clause (dall’altra parte del mare spuntavano i Kings Of Leon“…) eccetera. Dopo ci fu la terza ondata, poi la quarta, oggi saremo alla ventesima, anzi misà  che s’è allagato tutto e buonanotte.

Comunque, da quella che dovrebbe all’incirca essere la terza ondata rock del millennio stanno maturando dei secondi album davvero niente male (vuoi vedere che alla fine si impara dagli errori?). I Razorlight si sono confermati alla grande e aspettando Veils, Bees e compagnia bella, stavolta la buona notizia ce la portano quei teppisti dei Kasabian. Licenziato su due piedi il polistrumentista Karloff e con un buon batterista stabile nella line up, il gruppo di Pizzorno e Meighan si ripresenta con un secondo album di tutto rispetto dal titolo (ovviamente) megalomane: “Empire”. Stop; breve passo indietro: chi sono i Kasabian? La leggenda vuole che il gruppo discepolo di Stone Roses e Oasis, dopo mesi passati a provare alcune canzoni si ritrova per caso di notte ad una festa in campagna e affascinato dal rudere decide di affittarlo già  dal giorno dopo per registrare un album. Con pochi mezzi di fortuna, senza un vero produttore alle spalle e in mezzo alle galline nasce il debut omonimo: un perfetto mix di brit pop pieno di atmosfere pompate da un immenso wall of sound, drogate dai riverberi fino alla nausea e molta elettronica (for dummies, essenzialmente). Il resto lo ha fatto il passaparola (capito Thommasino Yorke? E’ una fortuna stare su un blog il più delle volte! Diglielo ai tuoi avvocati pettinati.), un vero produttore che ha curato meglio i dettagli e una programmazione radiofonica nazionale a dir poco massacrante.

I Kasabian sfottono, provocano, sono piuttosto spacconi e si proclamano la miglior band inglese. Anche per questo i fan dei fratelli Gallagher (che intanto li adocchiano e se li vogliono portare in tour in America) li adorano. Swaggerers. Le loro esibizioni live mi lasciano sempre col sospetto che non sia tutta farina del loro sacco al 100% e che da dietro le quinte ci sia qualcuno di molto ben preparato che faccia partire al tempo giusto gran parte delle basi più complicate che la band utilizza come “tappeto” su cui poggiare QUEL sound ormai divenuto inconfondibile. Tom Meighan canta in maniera perfetta su disco ma dal vivo lascia a desiderare, Sergio Pizzorno è un artista valido e al contrario del frontman è sempre intonato, anche dopo venti birre. Strana figura quella di Sergio, a metà  tra John Frusciante e Johnny Depp. Pizzorno è l’autore di tutti i testi (incentrati come sempre su terrorismo, crisi mondiale, droga, donne, frustrazioni moderne e allucinazioni) e quello che con i backing vocals vi fa tornare la nostalgia per i vecchi Kula Shaker (sul primo disco anche lead singer in “U Boat” e “Test Transmission”).

“Empire” è anticipato da un singolo omonimo che si rifà  non poco a certe cosette che resero famoso Jim Morrison: Ladies and gentlemen, from Venice Beach California”…The Doors!!! e poi pa-pa-pa-pa- pa pa paa, ma stavolta Roadhouse Blues diventa qualcosa di veramente stralunato. Una marcia psicotica in 4/4 (o due mezzi”…fate voi”…) infarcita di piccoli lampi industrial, pasticche dance, e polvere pop. Cambi di ritmo notevoli e atmosfere da rivolta cittadina. Non è una canzone. Assomiglia di più a una piccola guerra civile. E proprio di guerra si parla nel videoclip girato per l’occasione (facilmente reperibile in rete, è un piccolo gioiello che non andrebbe perso). We’re all wasting away urla Meighan e c’è da credergli visti i tempi ammuffiti che stiamo vivendo, mentre sotto quella melodia, per un secondo, voi ci ritrovate anche il motivetto del caro Gioca Jouet. Il disco scorre che è un piacere: psichedelica freschissima, impastata da Jim Abbiss che si conferma ad altissimi livelli come produttore.

In “Sunrise Lightflies” sembra quasi di sentire un ispirato Noel Gallagher che canta la miglior canzone dei Six By Seven, mentre “British Legion”, la ballad del disco, è pura ispirazione McCartney. Questo disco ha anche qualche pecca: “Apnoea” e “Seek And Destroy” non sono pezzi brutti ma di certo potevano essere “lavorati” in maniera più accurata; essenzialmente non hanno molta forma e forse non meritavano di stare sul disco, ma in definitiva ci può anche stare una piccola distrazione. Questo album rivela in cuffia molti più particolari “intimi” del precedente e sembra quasi di vedere il gruppo intento a bere birra, vantarsi in giro e infarcire le frasi con centinaia di “Y’know I mean?” o “Fuck” qua e “Fuck” di là . Alla fine di tutto i fiati che chiudono il delirio di “The Doberman” vi lasciano contenti e pompati.

CONCLUSIONE: Adesso che tutto è stato detto e che l’aria è limpida andate in giro su internet a cercare un pezzo in italiano scritto in maniera più completa sui Kasabian e vedete se riuscite a trovarlo.