Che il cinema italiano sia in crisi lo dimostrano non tanto gli incassi, tornati discreti con i film di Natale e le commedie di Veronesi, quanto il fatto che esso ha costantemente necessità  di cercare dei nuovi eroi. Basta citare Brecht per capire che è beata quella terra che non ne ha alcun bisogno.
Il nuovo eroe è Paolo Sorrentino, che è arrivato a dover sostenere il peso di essere la migliore speranza del cinema italiano dopo aver realizzato appena due film, per altro ottimi. L’attesa per la sua nuova fatica era talmente alta, quindi, da farla arrivare in fretta e furia a Cannes ancora sotto forma di copia-lavoro.

“L’amico di famiglia”, uscito finalmente in versione definitiva, è un ottimo film, forse meno elegante e meno lineare de Le conseguenze dell’amore, ma ugualmente distante dai temi cari e abusati dei giovani autori italiani: nessuna denuncia sociale, pochi riferimenti autobiografici e autoreferenziali, nessuna tendenza al “film di formazione”, quanto piuttosto un’attenzione insolita su personaggi che il cinema raramente ha fatto diventare dei protagonisti.

Le conseguenze dell’amore faceva vedere i moti dell’anima di un elegante ed insospettabile colletto bianco della Mafia, mentre L’amico di famiglia presenta un personaggio assai malsano, un usuraio che nella sua scarsa grazia ricorda le deformazioni shakespeariane di un Riccardo III o di uno Schylock. Ai personaggi di Shakespeare, tra l’altro, rimanda anche il suo costante riferimento alla malvagità  come ricompensa per i torti subiti per la sua pessima presenza fisica.
Di una cosa si può subito dare atto a Sorrentino: non ha paura di scontentare il pubblico, nè mai tenta di accattivarselo, dimostrando il coraggio di puntare al cattivo gusto pur di incanalare il film secondo i suoi propositi artistici. Dimostra però anche di sentire la presenza dello spettatore, e di volere sempre venire incontro ai suoi bisogni di comprensione, evitando così di essere troppo personale e sfuggente.

Geremia, il protagonista, all’apparenza è un anziano sarto dall’aspetto grottesco, sgradevole e sporco, incapace di trovare moglie neppure affidandosi ad un’agenzia matrimoniale e costretto a vivere in uno squallido appartamento con una madre inferma e morbosa. In realtà  è uno strozzino senza scrupoli e senza alcuna moralità , dedito al voyeurismo, con una passione per i gianduiotti e manie cleptomani.

Come però in Shakespeare, è l’unico ad avere una sua coerenza etica in un ambiente pacchiano, volgare ed ipocrita. Ecco quindi il personaggio di Bentivoglio, che apparentemente oppone il suo ritiro country, associato a patetici sogni di fuga verso il Tennessee, allo squallido tugurio del suo amico Geremia e alla sua avidità . Eppure, il regista riesce a non essere affatto predicatorio e fintamente “sociale” in quanto il suo film è poggiato su una variegata gamma di soluzioni di messa in scena, che si allontanano radicalmente dal realismo per sposare toni espressionistici, e che rifiutano del tutto una struttura lineare in favore di una narrazione che procede per lampi ed intuizioni, più che su un intreccio ben definito. I suoi protagonisti dimostrano la loro personalità  attraverso i dettagli, o i gesti ricorrenti, e la loro recitazione è molto misurata, a differenza della moda italiana attuale, che vede spesso gli attori urlare il loro stato d’animo con la macchina da presa incollata, e ugualmente nevrotica. La tipizzazione dei suoi personaggi quindi non passa tanto per i dialoghi, che pure sono molto presenti, ma soprattutto per gli espedienti visivi che hanno il maggior peso nel determinare umori ed atmosfere.

Paolo Sorrentino ha uno stile: è questo che gli fa avere, rispetto ai suo giovani colleghi, un passo in più. Difficile stabilire se sia una sua caratteristica o ne sia complice la rinnovata collaborazione con Luca Bigazzi, uno dei migliori tecnici del cinema italiano. Il campo in cui dimostra di avere un talento fuori dal comune è soprattutto quello della relazione tra lo spazio e il personaggio. Il degrado umano che il film mette in mostra ha uno stretto contatto con lo squallore di Latina e i suoi edifici invadenti, ridondanti e desolati, che entrano nel film al pari dei protagonisti. Il paesaggio, urbano e non, ha lo stesso ruolo che spesso detiene nei film di Ciprì e Maresco (anche essi, nemmeno a farlo apposta, hanno una proficua collaborazione con Bigazzi): forse, quello di Sorrentino è meno abbandonato, ma anche più intrigante, in quanto più familiare allo spettatore.

Si possono perdonare delle allusività  scontate, come quelle di Geremia che associa la Vergine alla giovane Rosalba, certi toni da commedia vanziniana (i gladiatori di borgata all’Altare della Patria), o anche certi inserti “riassuntivi” più simili a videoclip che ad un film vero e proprio (la colonna sonora è di Theo Teardo, già  autore delle musiche di “Lavorare con lentezza” e “Denti”) da cui il cinema italiano tarda a liberarsi. Non c’è dubbio però che la sequenza in cui Geremia si sdraia vicino ad una Eva contemporanea, che prende il sole nuda sotto ad una palma, in un giardino dell’Eden ricreato in un viale di Latina, dimostra un talento che sarebbe bene non dissipare in alcun modo.
Nonostante inevitabili difetti, L’amico di famiglia è comunque una promessa mantenuta.