Guido di notte su una strada periferica, sono quel minuscolo puntino luminoso in un pozzo nero senza forma. C’è qualcosa di terribilmente puro nell’immagine di un mondo che inizia a disegnarsi davanti ai tuoi occhi solo per quell’istante in cui lo attraversi, una realtà  pronta a scomparire ingiottita dal buio perfetto che si richiude alle tue spalle. E da lontano devi essere anche tu come una di quelle stelle lassù, ma impazzita, e caduta, e mentre danzi tra le curve sembri così persa in cerca del tuo pezzo di cielo. E loro, le altre stelle, immobili da altezze inconcepibili a guardare in giù. Forse per sempre.

Certe canzoni dei Giardini di Mirò potrebbero raccontarsi proprio così: disegnano il buio, crudo e sconfinato, per poi dischiudersi in prismi di luce quasi accecanti fino a schiantarsi su se stesse in un crepuscolo finale e definitivo.
“Dividing Opinions”. Giusto. Allora dividiamoci subito: quello della band romagnola è un disco cardine, un punto di riferimento indipendentemente dalla discografia precedente e scommettiamoci futura. Ogni posizione è lecita ma o siete con me o contro di me su questo. I due minuti dell’introduttiva e omonima “Dividing Opinions” hanno l’incedere monolitico dello shoegaze ma perfettamente intagliato dagli inserti elettronici della seconda metà , una canzone che è anche il primo segnale se non un esplicita dichiarazione di intenti, della compattezza e della precisione compositiva maturata dalla band. Coesione e lucidità  sono due fattori che caratterizzano il suonato attuale dei Giardini di Miro’, e diciamolo pure quando è lecito farlo, in maniera assolutamente non comune: da questo punto di vista ci sarebbe da faticare non poco per trovare un disco che attualmente tenga il passo con questo “Dividing Opinions”. Non per farsi prendere da facili entusiasmi, ma quelle quattro stelle e mezzo corrispondono esattamente alla mia idea di piccolo capolavoro.

Direi che ora siamo all’equilibrio perfetto, e non è una parola usata a sproposito, tra quella maestosità  nella costruzione che da sempre contraddistingue certo suonato alla Godspeed You! Black Emperor e la struttura musicale più diretta intesa nel senso convenzionale di canzone, dove il refrain e il ritornello sanno comunque guidare l’ascoltatore. E visto che siamo nel momento delle citazioni ci aggiungerei i Slowdive presenti ma ormai assolutamente metabolizzati, i Mogwai ma più sfaccettati e con un controllo sulle dinamiche spesso superiore, i Mew ma infinitamente più determinati e incisivi.

Siamo davanti ad una formazione che ormai dovrebbe (e meriterebbe) tranquillamente il confronto su vetrine internazionali decisamente più stimolanti e appaganti dei soliti claustrofobici paesaggi italiani. E le collaborazioni di rilievo presenti nell’album (Jonathan Clancy dei Settlefish, Sascha Ring al secolo Apparat reduce tra l’altro dall’ottimo recente lavoro con Ellen Allien, gli americani Cyne, Glenn Johnson dei Piano Magic) ne sono la dimostrazione più evidente. Una nota di merito anche ad Emanuele Reverberi che ha curato gli impeccabili ed emozionanti arrangiamenti degli archi.
Da non sottovalutare neppure la grande immediatezza di un album che nonostante certe epiche deframmentazioni finali di drum machine ed elettronica e quell’approccio in crescendo con cui i scarni riff iniziali sbocciano, prima malinconici poi violenti in crepuscoli iridescenti mai meno che definitivi, riesce sempre a comunicare una tensione interiore diretta e come dicevo immediata.

Il risultato alla fine è come riuscire ad imbrigliare senza disperderne la forza creatrice, i moti oscuri, alterni e maestosi del mare in tempesta, in nove piccole bottiglie di vetro.
Si, assolutamente poco meno che un miracolo.