Lasciare tutto perchè niente vale. Un viaggio a ritroso nel cuore dell’uomo, uno sguardo atomico da mille miglia, il luccichìo di una scintilla fatale nell’anima, ‘BAM!!’ via le catene, ‘BAM!!’ via i vecchi binari ammuffiti già  belli e pronti da percorrere ed un lungo respiro prima del salto: questa è la vera storia di Chris McCandless, che appena laureatosi lasciò tutto e tutti, senza rancore e gelosia, per una lunga corsa nella solitudine benedetta delle terre estreme in Alaska. Da allora tutto ciò che riguardi questa storia pare intrecciarvisi naturale e coglierne le sfumature più vitali: le visioni di Sean Penn, le parole di Jon Krakauer, il suono di Eddie Vedder.

Affluisce vitale e prepotente la voce del rocker di Chicago, si mischia vischiosa e passionale al lieve tremolio della brezza serale tra le fronde, diventa inscindibile compagna di un’avventura che travalica lo spirito del singolo per diventare parabola dell’uomo post-nucleare: in continuo movimento in un mondo lillipuziano egli perde se stesso, la sua identità , si dimentica della natura, vive omologato in piccole esistenze prefabbricate con ritmi incellofanati che lo rendono carne molliccia e nulla più.

E così arriva energico come uno schiaffo inatteso quest’ album, sorprendente per la devastante sincerità  e la cura passionale che il leader dei Pearl Jam ci mette dentro, spogliandosi completamente del suo passato suonando come un esordiente che bruci tutto se stesso in ogni piega di ogni singola canzone. Che poi sono pezzetti di vetro luccicanti di un vaso andato rotto tanto tempo fa, intime confessioni di un menestrello vagabondo attorno al fuoco mentre suona per gli amici più cari. Ma c’è di più.
C’è la magia di racchiudere in 30 minuti scarsi tutta la vita, la gioia irrefrenabile di ogni nuova partenza, eccitante e liberatoria come una corsa a perdifiato (“Far Behind”), la pura gioia rock in una giornata di giugno (“Settin Forth” e respirare aria a pieni polmoni saprà  di felicità ), la magnificenza di eterne costruzioni naturali, montagne immote, colline verdeggianti, il rigoglio dei fiumi tra ukulele e chitarre elettriche liquide e lente come il passare delle stagioni; fino alla malinconia inevitabile del crepuscolo (“Long Nights”).

Con irrefrenabile ispirazione sgorgano canzoni miracolosamente perfette, epiche, fresche e trasparenti come acqua di fonte, cielo azzurro e nuvole di cristallo, tutto mischiato con parole rimasticate e sputate fuori con dolcezza sprezzante da una voce vibrante che si nutre di tutti i fantasmi polverosi del rock americano degli ultimi trent’anni, dei suoi orizzonti infiniti e del suo cognac migliore. Eddie è lì con Chris, quasi si commuove e niente gli rimane da fare che inchiodare il suo sguardo in pochi giri di chitarra. La luce e la povertà . Perchè l’uomo più felice è quello che ha meno bisogni, l’hanno detto in tanti, c’hanno provato in pochi, ma quei pochi hanno goduto di un abbaglio santo. Ed Eddie Vedder porterà  ancora la camicia di flanella ma ha scritto un album fottutamente moderno con crismi d’eternità .