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Alex sogna se stesso e i suoi amici mentre stanno facendo prodezze con lo skate tra le strade di Portland, profondo nord degli Stati Uniti. La pellicola è uno sgranato 16mm, il rumore delle ruote sulla superficie, trasfigurato oniricamente, assomiglia al suono rassicurante e new age delle onde del mare. Con questo film, Van Sant tenta di congelare quelli che dovrebbero essere gli attimi più importanti della sua vita: perde la verginità con una coetanea, accede al rito di iniziazione di Paranoid Park, il luogo dove vanno a destreggiarsi gli skater più bravi della città , uccide accidentalmente un uomo. Non sposa Alex come protagonista, piuttosto lo pedina, inseguendolo per i corridoi della sua high-school (bellissimo retaggio del precedente Elephant), per la città , nei suoi incontri con la fidanzata cheer-leader, e lascia trasparire una simpatia che sembra poco altro che il necessario rapporto di affezione tra l’autore e la sua creatura. E’ un tragitto mentale perchè Van Sant spezza continuamente la linearità della vicenda, tornando più volte sullo stesso fatto, portando le singole sequenze a perdersi nel centro/vortice che è l’omicidio, la perdita dell’innocenza di Alex, apparente e falso turning point della sua esistenza, che riecheggia nel film come la voce del ragazzo sul ponte, in uno splendido notturno, mentre cerca di ricomporre quanto è successo, mentre cerca di spiegarsi alla sua coscienza. Il giorno dopo avrà già dimenticato: l’unico ricordo è un racconto/confessione che cerca di scrivere, e che è destinato a finire tra le fiamme. |
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