Ci sono, invece, quei dischi che temono i plurimi ascolti. Quei dischi che sono in cerca di personalità , e la trovano andando a pescare nel proprio bagaglio culturale e nelle proprie influenze. Quei dischi che, più li ascolti, più ti ricordano qualcosa d’altro, qualcosa di già  sentito, qualcosa che viene riproposto con parole diverse, ma la sostanza è riconducibile, indubbiamente, all’originale.
Questo è un po’ quello che ho pensato ascoltando “Dropping The Writ”, terzo disco per Cass McCombs, questa volta uscito per la Domino Records, abbandonando la precedente 4AD, che denota anche un mutamento di suono rispetto ai lavori precedenti.

Il viaggio, credo sia questo il tema conduttore del disco.
E forse non è solo una mia impressione, dato che il Nostro ha girovagato un bel po’,prima di stabilirsi definitivamente a Chicago.
Un viaggio che si destreggia tra cantautorato americano, folk, country, musiche balcaniche, blues e rock, psichedelica, simbolo da una parte di maturazione, ma dall’altra anche di eccessivo eclettismo.
O forse di manierismo.
Prima solo accordi di chitarra, poi attacca la batteria, poi la voce. Un’eco lontana del folk pop degli Akron Family. Ed è così che inizia l’album, con “Lionkiller” traccia d’apertura, quella che subito ci colpisce di più per la sua carica.
E poi la sua voce, mi ricorda moltissimi cantautori. “Pregnant Pause” sembra intonata da un Chris Martin o un Elliot Smith, mantenendo ritmi più dolci della precedente, ai quali si aggiunge un’armonica (questo sì che fa country americano) e un semplice giro d’accordi, per poi finire nel fruscio delle foglie al vento.

I toni, ora, si mantengono più smorzati, come in “That’s That” e “Morning Shadows”, diventando appena più acuti in “Petrified Forest”, con una costante chitarra di sottofondo, ormai simbolo che contraddistingue tutto “Dropping the Writ”.
Ogni tanto, però spunta il manierismo: la voce in falsetto di “Deseret” (che fa tanto Flaming Lips), una delle tracce più riuscite del disco insieme alla successiva; il giro di chitarra che introduce “Full Moon Or Infinity” (da confrontare con “Avalanche” di Leonard Cohen); le voci sussurrate di “Windfall” (molto Simon & Garfunkel).
E spuntano di nuovo (forse qui in modo più esplicito) i Flaming Lips, nella traccia che chiude il disco “Wheel Of Fortune”, che si mescolano alle nacchere ed ad una melodia che va spegnendosi piano piano, come a segnare l’arrivo alla meta.

Credo che, potenzialmente, Cass McCombs, avrebbe potuto fare molto di più, forse concentrandosi su un certo tipo di canzone, forse quella cantautoriale, senza attingere a troppi generi differenti come invece è questo suo album.
L’eclettismo, al giorno d’oggi, non paga più.

Credit Foto: Silvia Grav