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Mi accostavo con timore a questo disco di Van Morrison, credevo di essermi dato la zappa sui piedi dopo aver deciso di farmi mandare dalla redazione la copia di “Keep It Simple”. Memore del putiferio scatenatosi su queste pagine riguardo la recensione di un disco dei Killers e della discussione nata dopo il mio articolo, non troppo entusiasta, sull’album di Christian Rainer (vi chiederete chi è costui, ma sappiate che ne esistono anche dei fan), ero pronto alla pubblica lapidazione se il mio gradimento non fosse stato all’altezza della fama del personaggio. Dal 1967 ad oggi ha pubblicato quasi quaranta dischi, per cui c’erano tutti i presupposti per trovarsi di fronte ad un’artista bollito e un disco fiacco ed inutile. Fortunatamente sin dal primo ascolto si capisce che la realtà è ben diversa, per cui i fan possono anche conservare i sassi appuntiti per la prossima occasione. Siamo al cospetto di una mirabile prova di soul-blues venato di folk in cui al mestiere si aggiunge una ingente dose di ispirazione e divertimento. Si, divertimento, non tanto per l’approccio formale delle canzoni, costruite su tempi medio lenti, ma proprio per quella sensazione di convinzione in quello che si sta facendo che trapela da ogni brano. Mi sembra di averlo davanti agli occhi Van Morrison, mentre suona in un locale fumoso ed alcolico e sorride di tanto in tanto al pubblico, di età media intorno ai cinquanta, che sorride di rimando pieno di soddisfazione. Me lo immagino, questo buffo e rotondo sessantatreenne mentre suona l’ukulele o si lascia andare ad un assolo di sassofono come fosse la prima volta, mentre canta di qualche amore perduto nel tempo e di qualche anima persa in qualche angolo remoto dell’Irlanda. |
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