Le strade di Reykjavik sono illuminate da un sole fisso ed ipnotico, che inonda nottate interminabili rendendo il cielo lattiginoso una sacca accogliente di luccicante armonia.
Al Boston, locale frequentatissimo il venerdì sera, mascara sciolti dal sudore colano nei mojito al ritmo degli Abba che cantano a squarciagola. L’Islanda è il posto più lontano dal mondo, tramortisce e vibra come xilofoni suonati per nessuno.
Le quattro del mattino e fuori s’ipotizzano albe gonfie di chiarità , bestie mai sazie mentre si mangiano case e persone affogate in un bagno di luce che nega la notte.
I locali chiudono. Poi in auto verso casa. Accendere lo stereo per depressurizzare orecchie assillate. Mettere su un disco che accompagni pensieri alcolici mentre in silenzio si attraversano vallate verdeggianti, che declinano assonnate il loro fianco ai primi tepori.

Ritorniamo a Reykjavik per prendere quindi il disco che fa al caso nostro, l’ultimo di Emiliana Torrini. Scocche rosse, viso tondo pulito, capelli bruni raccolti in un’acconciatura che la fa sembrare un maschiaccio sono il biglietto da visita che ci conduce all’ascolto del suo ultimo lavoro. Libera dagli schemi, dalle malinconiche espressioni giocate con forza negli album precedenti, l’italo-islandese si ripresenta sulle scene con rinvigorita freschezza. C’è gran voglia di sperimentare generi e soluzioni colorate, eclettismo che trova la sua pietra angolare nella melodica voce di Emiliana, una specie di Bjork che si diverte a giocare col pop lasciando da parte tensioni nervose e virate schizofreniche.

La chitarra del fidato Dan Carey è il timone che dirige la barca, ora inseguendo dilatati reggae nordici, ora inoltrandosi tra le brume di un crepuscolo che tarda ad arrivare, ora facendosi liquida e sporca come nell’improvvisata “Gun”, nata per caso nelle campagne inglesi attorno ad Oxford. Pur mancando un filo conduttore emotivo ben preciso, “Me And Armini” svela fin da subito la padronanza della Torrini nel muoversi tra note ed atmosfere variegate, piegando alla sua volontà  gli strumenti che la seguono con fedele riverenza. Mutevoli come il cielo della sua terra che danza tra piogge improvvise e solari aperture di nubi, le canzoni s’insinuano sottopelle con l’eleganza della normalità  ricercata, scavando solchi nostalgici di sicuro effetto specie quando i ritmi rallentano (“Birds” su tutte) e le corde vocali di Emiliana si piantano morbide e decise nel mezzo del pentagramma.

Nonostante l’album sia stato scritto e registrato per gran parte in Inghilterra, è fortemente influenzato dal Paese natìo della Torrini, che, per sua stessa ammissione, si dichiara inscindibilmente legata a quei paesaggi, ai fraseggi tra tempi dilatati ed immense visioni naturali nonchè agli amici e parenti che ancora vivono lì. Come quando racconta di essere andata in giro in auto con la zia fino alle falde del ghiacciaio Snaefells, gironzolando per le cave che si aprivano intorno e di essere rimasta lì nella contemplazione della natura e degli animali che ruzzolavano impauriti provando sentimenti di cupa bellezza.
Gli stessi che, in fin dei conti, ritroviamo alla base della sua musica delicata.