Da oltre dieci anni la Scozia, e Glasgow in particolare, è divenuta uno dei principali epicentri di un movimento che lentamente ha trovato terreno fertile, proliferando su scala mondiale nell’ultimo quinquennio. Si tratta del post-rock, genere che vuole dire tutto e niente, ciambella di salvataggio utilizzata da diversi critici musicali per indicare lo stile musicale di gruppi praticanti un approccio prevalentemente strumentale caratterizzato da lunghe composizioni, spesso ben aldilà dei canonici tre minuti e mezzo di durata. Gruppi come i Mogwai, alfieri di una concezione sonora che, affrancandosi dalla schiavitù testuale, è capace di un gorgoglio di emozioni libere da ogni vincolo spazio-temporale.

Quando uscì “Mr. Beast” nel 2006 il sottoscritto rimase piuttosto deluso da un’opera che, affidandosi ai muri sonori piuttosto che alla musica in sè, sembrava avesse smarrito la freschezza d’impatto delle prime uscite discografiche, nonostante lo snellimento dei brani ed una maggiore eterogeneità presente. A due anni di distanza esce “The Hawk Is Howling”, lavoro che smentisce fermamente la possibilità , ventilata da più parti, dell’inizio di una parabola discendente nella traiettoria artisitca della formazione scozzese. Un ritorno alle origini insomma per un lavoro che, abbandonate quasi del tutto le sperimentazioni precedenti, si avvicina idealmente alle atmosfere romantiche di quel “Come On Die Young” che ha fatto tante vittime emotive in passato. Svariando lungo tutto il fronte d’attacco, la formazione di Glasgow non si accontenta di emulare la classica e formulaica alternanza di pieni e vuoti, tanto cara alla frangia più emotiva del genere strumentale. I Mogwai non propongono melodie scontate, alla costante ricerca di un equilibrio spesso instabile, come alchimisti medievali interessati alla creazione della pietra filosofale: la struttura intricata delle composizioni regala ad ogni nuovo ascolto un accordo che prima era sfuggito. Senza mai sfruttare il suono fino a prosciugarlo completamente, le dieci composizioni garantiscono un flusso continuo di note incorniciate da episodi decisamente al di sopra delle proposte correnti: le contorsioni sonore ed i riff taglienti di “I’m Jim Morrison, I’m Dead” spazzano via ogni tipo di resistenza, mentre “Scotland’s Shame” avvolge l’ascoltatore con melodie circolari di epoche passate.

Per gli alfieri di un genere considerato a più riprese (ed erroneamente) morto e sepolto un ulteriore saggio di un talento che guarda dall’alto un pò tutti i praticanti del genere. E noi qui ad applaudire con gusto.

Credit Foto: Anthony Crook