Non credo molto alle presunte british invasion degli ultimi anni: tanti lustrini, pagine patinate delle riviste, un pugno di singoli godibili e ben poca sostanza. Se andiamo indietro di qualche anno però penso alla grande qualità  degli Elbow, ai primi Coldplay, agli Snow Patrol di “The Final Straw” e ai Doves. Questi ultimi, autori di un favoloso esordio come “Lost Souls”, egregiamente seguito da quel grande concentrato di singoli e psichedelia notturna di “The Last Broadcast”, mancavano dalle scene da più di quattro anni, da quel “Some cities”, disco sottovalutato dalla critica, ma capace di regalare gemme come “Black & White Town”, il cui video è passato diverse volte in tv dalle nostre parti.

Quattro anni sono sufficienti per maturare un percorso che, dall’approccio psichedelico in chiave pop degli esordi, sembrava poi favorire soluzioni più asciutte e vicine alla forma canzone tout-court. Si parla sempre di brit-pop-rock, un linguaggio che predilige le cavalcate elettriche altrernate ad atmosfere più rilassate, liquide e crepuscolari. Onde evitare ogni sorta di dubbio ci tengo a precisare che “Kingdom Of Rust” è un disco magnifico, che si colloca esattamente a metà  tra tutto quello che il trio di Wilmslow, piccolo centro dello Cheshire in inghilterra, ha prodotto fino ad oggi. Questo galleggiare tra soluzioni classiche e piccole digressioni psichedeliche è la ricetta vincente di un album che va ascoltato ad un volume adeguatamente alto. Brani come la title-track, “Jetstream”, “Winter Hill” , “10:03” sono sontuose cavalcate elettriche, che ai riff di chitarra aggiungono qualche alchimia elettronica tali da rendere i brani talvolta ballabili, altre carichi di furia (brit)rock che gronda passione e sudore da ogni singola nota.

Non mancano i passaggi più brumosi e notturni in pieno stile Doves, soltanto che poi si aprono a momenti di furia acida e melodica di fronte ai quali anche il buon disco degli U2 dato da poco alle stampe, sembra essere due spanne inferiore. Questo dovrebbe essere il vero rock da stadio, quello da dare in pasto alla massa, peccato che non sia così e che qui da noi, a meno di clamorosi di colpi di scena, se ne accorgerà  soltanto un pubblico di nicchia. Per coloro che inciamperanno in questa recensione, consigliamo vivamente di procurarsi una copia di “Kingdom Of Rust” e di regalare le proprie orecchie in pasto a quello che si rivelerà  certamente uno dei dischi dell’anno.