All’inizio il collegamento non sembra chiarissimo. “Begone Dull Care” è un film d’animazione del 1949, diretto dal regista scozzese-canadese Norman McLaren insieme a Evelyn Lambart: le note jazz dell’Oscar Peterson Trio come macchie di colore che si rincorrono frenetiche lungo quasi otto minuti di pellicola. Velocità , jazz e colori: non proprio le prime cose che vengono in mente pensando alla musica dei Junior Boys. Poi senti spuntare un banjo all’inizio di “Dull To Pause” e ti sorprendi ad accostare la canzone al nome di Jimmy Tamborello, tra Figurine e Dntel. Per non parlare del funk sintetico che imperversa in “Beats And Pieces”: dei Junior Boys tanto upbeat e saltellanti non si erano mai sentiti.
Macchie di luce e colori, compaiono qua e là , nel terzo lavoro in studio del duo formato da Jeremy Greenspan e Matt Didemus. A volte in maniera palese, in altri momenti in modo più sottile e leggero. Il risultato, comunque, è il disco più chiaro e sereno uscito a nome Junior Boys.
Intendiamoci, non ci sono enormi rivoluzioni. L’approccio di base rimane invariato: elettronica e minimalismo, le atmosfere scure di certa techno disallineata, richiami agli anni ’80 di mezzo, melodie malinconiche dal sapore soul. La strada resta quella intrapresa con il precedente “So This Is Goodbye”. Lo confermano episodi come l’indolente “Sneak A Picture” o la conclusiva “What It’s For”, con il suo pulsare rilassato e continuo. Si aprono spazi, però, per scelte apertamente più luminose (“The Animator”, il singolo “Hazel”), liquide e adatte alla pista (“Work”), o anche solo serene (“Parallel Lines”). Il tutto accompagnato costantemente, incessantemente da una cura maniacale per i dettagli. Ogni beat, ogni nota di tastiera o di synth, ogni piccolo loop è pensato, controllato e incastrato in un gioco di ingranaggi che non mostra la minima sbavatura.
Certo, il prezzo da pagare per tanta perfezione formale è un’inevitabile freddezza di fondo. E se nel precedente “So This Is Goodbye” erano i toni soul della voce e delle melodie a donare calore alle canzoni, in “Begone Dull Care” il compito è affidato ai raggi di luce che qua e là attraversano le costruzioni scure del duo. Il tono glaciale e solitario prova a sciogliersi, a scuotersi: si fa scorrevole. Le già citate “Dull To Pause” e “Beats And Pieces” ne sono gli esempi più evidenti, ma anche il resto della scaletta non sfugge a questo quadro.
Come in quel corto di Norman McLaren, macchie di colore si animano sullo sfondo nero. Non resta che seguirle con lo sguardo, affiancarle alle note e dondolare decisi al ritmo secco dei beat sintetici.