Spesso le perle più belle sono quelle meglio nascoste: per trovarle bisogna faticare, avventurarsi nelle profondità  del mare e non demordere di fronte alla prima difficoltà ; bisogna avere l’ardire di esplorare. Alla fine, il solo poterne contemplare lo splendore ripagherà  della fatica spesa.

Non ricordo dove ho letto questa frase, o comunque dove ho letto qualcosa di più o meno simile; sarà  stato tra le pagine di un libro, su uno dei tanti blog che frequento, sui muri di un capannone industriale, nei meandri di un sogno particolarmente psichedelico: in ogni caso, poco importa. Il punto è che queste parole riescono a descrivere perfettamente la musica educata e confidenziale di Piers Faccini, e l’eleganza discreta della sua creazione in un sabato sera primaverile.
Una manciata di canzoni che tratteggiano delicati scenari dalle mille sfumature e dalle più disparate influenze, proprio come il sangue che scorre nelle vene del songwriter: padre originario di un paesino di montagna di nome Tosca, in provincia di Parma, e madre inglese; cresciuto a Londra ma parigino di adozione, domiciliato da qualche anno tra le colline nei pressi di Montpellier e da sempre percorso da una spiccata attitudine cosmopolita.

Brani che si avvolgono con discrezione – la stessa che Piers dimostra di avere sul palco come nei dischi – e finezza di molti rimandi musicali e si fanno sempre più articolate, man mano che i vari membri della band e gli ospiti salgono sulla scena. Nessun effetto speciale, niente luci colorate o sbuffi di fumo: solo la voce, calda ed emozionale, miscelata al folk anglosassone iniettato di blues per ammaliare una platea incantata. Il calore della pietra leccese, la scansione ipnotica delle arcate e l’alto soffitto in legno delle Officine Cantelmo, le vetrate dietro le spalle dei musicisti sono la cornice ideale per conferire all’esperienza un che di mistico ed idilliaco.

Ma è la musica, e solo la musica, la protagonista della serata: Faccini inizia da solo, accompagnato dalle vibrazioni della sua chitarra; poi, di canzone in canzone il palco si riempie, accogliendo, tra gli altri, il violino di Rodrigo D’Erasmo – il cui nome figura da qualche tempo anche sul libro paga di Mr. Agnelli – e il tamburello del percussionista salentino Mauro Durante. Si pesca soprattutto dal lavoro fresco di pubblicazione “Two Grains Of Sand”, ma c’è spazio anche per qualche pezzo recuperato dai due dischi precedenti (“Come My Demons”, “Each Wave That Breaks”). Non c’è bisogno di alzare i volumi: l’atmosfera è intima e raccolta mentre Faccini accarezza le sei corde e ci conduce con le sue note dalle alte scogliere a picco sull’Atlantico fino al delta del Mississipi, passando per i bazar di Istanbul e le rive della Senna, tra un doveroso tributo a Dylan (“One More Cup Of Coffee”) ed una fuga nel country americano accompagnato dalla sua armonica a bocca.

I quadri che si materializzano su una tela inconsistente sotto i nostri occhi – Faccini è tra l’altro anche un pittore con diverse esposizioni all’attivo – pescano in un repertorio fatto di rimandi ai grandi bluesman come Leadbelly ed agli scenari crepuscolari di Drake, sempre in bilico tra la disarmante ingenuità  di un Elliott Smith e il nudo folk emozionale di Bon Iver.
Il concerto si chiude con una vera e propria esperienza di catarsi generale indotta da un mantra bizantineggiante e contaminato per soli tamburello e chitarra, con l’inconsueto ma riuscitissimo duetto tra Faccini ed il cantante popolare salentino Domenico Riso: pura trance mistica.
Ecco, mi ero ripromesso di godermi il concerto nella più assoluta spensieratezza e di non scriverci nulla, ma alla fine ho creduto che sarebbe stato un delitto non parlare dell’esperienza sublimante ed assoluta regalataci da Piers Faccini.

Credit Foto: Sixlocal, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons