All’Electric Ballroom alle 8 di sera c’è gente. Non tanta ma qualcuno c’è. I divani delle salette adiacenti il grande antro sovrastato da un palco uguale a un altro milione sono vuote per metà  e ci si può sedere a discutere di filosofia e religione sorseggiando birra australiana con malcelata soddisfazione e pacatezza.
All’Electric Ballroom alle 9 di sera non c’è neanche un posto per stare in piedi. Le luci blu splendono eleganti e regalano un velo color cielo agli occhi di chi aspetta mentre il ghiaccio secco offusca leggermente la visuale comunque distratta dalla vista di gente così diversa e vicina. Il posto più comodo è dietro le scale in fondo dove la quiete apparente è corrotta dall’ansia di macchine fotografiche, urla nervose, piedi che si muovono senza essere visti e donne che si tengono per mano, si cercano e alla fine si trovano sempre.

This is fucking political…this is fucking political…this is fucking political! è tutto ciò che gridano gli speakers in automatico, quasi fosse un mantra mentre le luci si abbassano, un vortice di voci travolge ciò che resta nei bicchieri e gli Skunk Anansie salgono sul palco. Poi Skin. Tripudio e l’ansia si fa decibel quasi coprendo una “Selling Jesus” più veloce del solito, una “I Can Dream” dal retrogusto metal più che semplicemente rock. Ma d’altronde gli Skunk Anansie vivono di sensazioni, allusioni velate, richiami che vanno dal blues al pop da classifica, dall’incubo al sogno nel giro di una canzone.

Il trucco non sempre riesce e le ballads, che risultano quasi dozzinali, piatte su disco, emergono dal vivo grazie ad un impatto strumentale violento e a quell’icona soul che risponde al nome di battaglia di Skin. You don’t look a day older è una frase di circostanza che si frappone nella dialettica musica-pubblico spezzandone la tensione, riducendo gli anni in giorni, secondi che diventano ‘presente’ quando “Charity” scivola giù dal pieno degli anni ’90 e diviene attuale come mai prima. Da queste parti erano gli anni dei Prodigy, degli Asian Dub Foundation, di Bristol, degli ultimi frammenti di vita di Madchester e della new wave che tornava pop e si sublimava in hard rock. Gli Skunk Anansie erano la sintesi di tutto ciò (nel bene come nel male) e “100 Ways” e “Charlie Big Potato” portano gli echi di una band in forma oggi come ieri con gli stessi identici pregi e difetti: lacune da rockstar da classifica e arrangiamenti perfetti, troppo perfetti. Non c’è nulla che non vada in una band così: non c’è proprio niente che un ascoltatore non possa apprezzare ma il vero problema non è il mezzo, bensì il fine. Un gruppo così compatto, definito potrebbe suonare di tutto e farlo così bene da ingannare al primo e al secondo ascolto.
La nuova traccia (“I Don’t Wanna Kill You”) è infatti un ibrido punk rock, una citazione degli Strokes (che citano la discografia dei Television e tutto Iggy Pop) che esalta solo i fans: scialba, scontata, deludente.

Il resto è tutto o quasi il Greatest Hits di recente pubblicazione: “Brazen”, “Twisted (Everyday Hurts)”, “The Skank heads”, “Hedonism (Just Because You Feel Good)” e una devastante “Little baby swastikkka”.
Dopo lo show gli Skunk Anansie sono tutti al bar a scambiare quattro chiacchiere col pubblico. Vorrei chiedere loro molte cose ma me le tengo per me e infilo l’uscita mentre mi tornano alla mente le parole di Sir John Peel quando un giorno a Top Of The Pops in seguito ad un video dell’improbabile duo Aretha Franklin/George Michael si lasciò sfuggire: You know, Aretha Franklin can make any old rubbish sound good, and i think she just has.

Foto Thanx to Cat Munro.

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