Sono in uno di quei momenti della notte in cui sento l’universo ruotare, sposto il piede e ci stavo quasi per camminare sopra, e guardo quella singola molecola. Sento gravitare tutto, stavo per calpestare il centro dell’universo cazzo. Senza neppure, per decoro, almeno togliere le mani dalle tasche. E poi. Riesco a sentire l’aria, precipito da fermo, microcorrenti come piccoli turbini sui pori della pelle. Sono in macchina e vedo il mio braccio sul volante come se fosse la prima volta, è la protrusione di un continente umano. Le luci dei lampioni in alto, quindici milioni di stelle in velocissime orbite perpendicolari e parallele. E’ vero. La geometria dovrebbe essere innaturale nell’universo anche quando tutto suona perfetto.

Vuol dire che spostare le cose, significa caderci di nuovo in mezzo, come quella prima volta che abbiamo dimenticato.
Quando tutto è stato già  fatto e detto, sei tu che devi muoverti. E’ anche la musica dei Russian Circles, passa non accanto o sopra, ma in mezzo alle cose. Puoi trovarti estraniato a metà  canzone e chiederti come ci sei arrivato.
La faccenda è che per esempio il folk come il rock è musica laterale. Voglio dire, si racconta intorno alle cose. La psichedelia è più interiore estrapola e associa liberamente, ma manca di lucidità . Arriviamo così a questi strani ibridi musicali del nuovo millennio, post rock, post metal, post qualcosa sicuramente. Relativamente originali formalmente, ma quello che sembra abbiano trovato un passo alla volta è un inedita terza via.

Tecnicamente inappuntabili con il grandissimo pregio però di non essere mai prevedibili, precisi come un orologio atomico, i Russian Circles sembrano aver condensato l’essenza del caos planando, decisi sin dagli esordi più sicuri direi oggi, tra turbini drone metal e carillion post rock. Affascina il come anche nei passaggi più turbinosi, sembrano sfrecciarci in mezzo con una direzione certa. Noi ascoltiamo guardandoci intorno. Loro sanno esattamente dove andare.
Sospetto in larga parte grazie al drumming imperioso, sempre originale e autoritario di Dave Turncrantz, uno dei batteristi più interessanti degli ultimi anni, in ulteriore stato di grazia in questo terzo album della band statunitense. Liberatosi di certi eccessi, appaganti ma forse un po troppo invasivi presenti soprattutto nel precedente album “Station”, Turncrantz conquista il controllo e la misura ideali che rendono ora ancor più sinuosi e avvincenti i passaggi dalle dinamiche più lente e atmosferiche ai slanci metal/prog.

Insomma globalmente? perentorio passo avanti per il terzetto statunitense, anzi mi voglio sbilanciare: fin qui la loro migliore realizzazione. Il cosiddetto, concedetemi la banalità  ma prima o poi è proprio vero tocca ad ogni formazione stabile, disco della maturità .
Per i dubbiosi mettiamoci anche sul biglietto da visita un curriculum che li ha visti aprire, senza perdere un colpo a giudicare da quel che si dice in giro, per band maiuscole come Mono, Pelican e Tool. Direi che può bastare.

Credit Foto: Ryan Russell