L’ultimo film di Wes Anderson è ancora una volta un’opera circolare.
Lo è nel senso che i suoi film non si muovono mai secondo un percorso lineare che li porta da un punto ad un altro, da un inizio ad una fine, ma seguono una direzione studiata in funzione di una continua ripartenza: se arrivano da qualche parte, è solo nell’unico posto dal quale possono ricominciare da capo.
Era proprio così il viaggio senza fine dei fratelli Whitman de “Il Treno Per Il Darjeeling”, che rimbalzava piuttosto che terminare, senza che i tre protagonisti si convincessero a prendere una decisione; così come lo era quello acquatico di Steve Zissou, il bizzarro oceanografo smarrito alla ricerca di un fantomatico squalo giaguaro.

Questa volta, si sarebbe potuto temere che la struttura narrativa del suo ultimo film potesse essere più organica, sotto l’influenza del racconto di Roald Dahl che l’ha ispirata: il regista texano e il suo fidato collaboratore Noah Baumbach (che si è presentato a Berlino con il bellissimo Greenberg, con un crepuscolare Ben Stiller) hanno invece raccolto la sfida, con la consapevolezza (spesso confusa con arroganza) di poter manovrare la storia a loro piacimento, piegando il significato originario ai loro scopi.
E cosi è stato: non solo “Fantastic Mr. Fox” è un film di Wes Anderson a tutti gli effetti, ma può addirittura essere considerato il suo film migliore, a partire dalla felice scelta di girarlo in stop-motion.
La decisione è una delle sue tante bizzarrie controllate, che fa di tutti i suoi film dei viaggi lisergici fatti con il freno a mano.
Non sono cambiati infatti cambiati i suoi personaggi, e non è cambiato il loro carattere, a cui rimanda il gioco delle voci prestate dagli attori: il padre che riflette sul suo destino, i due cugini in perenne competizione, una riflessione esistenzialista (ostentata ma allo stesso tempo anche autoironica) che avvolge ogni personaggio, e da al cinema di Wes Anderson quelle strambe pause per cui è diventato originale e facilmente riconoscibile.

Così come i personaggi sono alla ricerca di un trademark, di un marchio di fabbrica che possa essere la loro firma su un’azione qualsiasi, così i suoi film hanno quel tocco di personalità  che li rende unici: che sia uno studiato tocco vintage (la fuga nel sidecar d’epoca, un certo tipo di abbigliamento ricercato eppure eccentrico) o che siano dei movimenti di macchina particolari (in questo caso, manca il ralenti tipico che accompagna molte delle sue carrellate, ma non mancano i primi piani e le inquadrature simmetriche e vuote d’azione), o che siano ancora i dialoghi filosofici e falsamente letterari con cui si esprimono i suoi protagonisti, ogni inquadratura di Wes Anderson la si nota lontano da un chilometro, e fa onore alla sua preziosa e affettata autorialità .
Il suo cinema vive sul paradosso di sembrare improvvisato proprio quando è invece studiato al millimetro: e in questo deve tutto alla sua squadra di attori/amici, che sa incarnare perfettamente le sfumature delle sue creature artistiche.
Al centro delle sue ossessioni, c’è sempre la famiglia: quel legame rarefatto eppure palpabile che tiene unite persone completamente differenti tra loro.

I personaggi di Anderson si odiano e si invidiano, non si sopportano e poi si riavvicinano, si isolano e sono egoisti, si guardano con indulgenza e poi si pentono (ma mai fino in fondo).
E lui è un genio di quelli pericolosissimi: sanno ammiccare e farsi piacere, sanno essere spocchiosi e narcisisti eppure alla mano, sanno farsi odiare e nello stesso tutti vorrebbero averli come amici.
Esattamente come la volpe di questo film, ennesima fantastica prova di George Clooney.