David Eugene Edwards ha la stoffa di un antico cantore, di un predicatore del deserto. La sua voce declama le bellezze del creato, descrive la sofferenza attraverso il sacrificio e la preghiera, si spinge alla disperata ricerca della redenzione attraverso il martirio. Già  dalle prime note, che sembrano fuoriuscire dal nulla, da una dimensione spazio – temporale dimenticata o da un’anfora antica, si percepisce l’afflato dell’anima, dello spirito che si muove inquieto tra le pareti oscure e demoniache della tentazione, alla strenua ricerca della consolazione divina di un creatore che non c’è più o che è troppo lontano per udire le grida disperate dei suoi caduchi figli mortali.

L’afflizione, i patimenti dell’anima, infine la catarsi e la redenzione sono esplicati attraverso uno spettro sonoro amplissimo: si passa dalla Macedonia (“Terre Haute”) al Medioriente (“The Treshingfloor”), sino all’antica America dei nativi pellerossa (“Raise Her Hands”) con un’epicità  vicinissima agli Shiva Burlesque (“Orchard Gate”) o agli immensi Joy Division (“Truth”), ma con un piglio interpretativo che ascrive Edwards alle vette più alte dell’Olimpo dei grandissimi cantori della tradizione folk americana, una tradizione plasmata ad arte e riconsegnata intatta in tutta la sua magnificenza attraverso le confessioni a cuore aperto di “A Holy Measure” o “His Rest”.

“The Treshingfloor” è un disco sospeso, pastorale e magnetico, che disvela tutta la sua sconcertante bellezza in punta di piedi, tra corde acustiche, violoncelli, Oud greci, saz turchi e flauti ungheresi, riconducendo tutto ai primordi, ad un’idea ancestrale di purezza, di poesia, di innocenza, che il genere umano sembra aver totalmente dimenticato. La migliore opera musicale a nome Wovenhand, senza ombra di dubbio, di una magniloquenza sconcertante, da restarne scossi ed attoniti a lungo, almeno sino al prossimo ritorno del vecchio menestrello Edwards.