Incredibile.
Un disco incredibile.
Liquidarlo così basterebbe a descriverlo perchè probabilmente qualsiasi parola si aggiunga non farà  che deturparne la natura.
La creatura del policentrico Kevin Barnes, appoggiata da decine di musicisti che contribuiscono al disco da membri (più o meno) della band, continua a sfornare dischi sempre diversi, seguendo un percorso evolutivo che ha ormai toccato qualsiasi declinazione del rock passando anche per funk, pop, brit e alternative. Stavolta ci tocca ballare, con un pizzico di autoironia e svariate divagazioni dall’animo prettamente seventies. Il coloratissimo artwork ci porta immediatamente nel caoticissimo mondo di Kevin, che si espande nella sua musica senza sosta, e il risultato è evidente, nonostante non sia invece evidente il significato della copertina.

Il funk in realtà  è rimasto, ricordando in alcuni passaggi vaghe sfumature di Prince ‘e tutta quella roba lì’, rifatto con una qualità  che non si sentiva da decenni. Il modo in cui fluttua in ogni singolo pezzo e in cui si congiunge con un rock inteso più come forma d’arte che come genere musicale, lascerebbe stupito chiunque. Anche perchè sembra sempre che ci sia un intento seminascosto di voler vendere e non vendere, insomma un modo di conciliare i fans delle due sponde.
I titoli (e le dinamiche del disco) aprono le strade ad un’interpretazione sessuale delle tematiche di tutti i brani, ed effettivamente in rete si parla di concept album in questo senso. Ma Barnes non è certo un segaiolo, perchè di tempo a comporre (o perlomeno concepire) idee come quelle che troviamo su False Priest ce ne vuole abbastanza.

Si parlava di un’evoluzione. Il concetto funk era già  stato sviscerato e l’aspetto di novità  che troviamo qui riguarda in realtà  l’inserimento, liscio e pertanto lontanissimo dal risultare forzato, di elementi rhythm and blues affilati come un coltello a serramanico che penetra nella carne spolpandola e poi disossando i rimasugli. In sostanza, distruggendo tutto quello che incontra, che poi sarebbe ciò che conoscevamo prima di questo progetto di Athens (e non da Montreal, come potremo credere). Il linguaggio r’n’b, che non è hip-hop, sia chiaro, provoca improvvise manifestazioni di felicità  e gaudio, simili a qualcosa che si può definire solo come party-oriented, tra cocktail e sguazzanti balli in piscina, ma con tutti i crismi. Niente pop da classifica per cui, ma un pop che attinge a piene mani dal soul per aggiungere alla nostra esperienza quell’elemento festaiolo che proprio non ci aspettavamo dagli Of Montreal. E aiutano tantissimo le ospiti d’eccezione, Solange Knowles, sorella minore di Beyoncè, e Janelle Monae, un personaggio che sul web è stato anche etichettato come ‘l’anti-gaga‘. Questo non ci serve a capire la natura della capatina nel disco, ma almeno un intento iconoclasta a Barnes bisogna riconoscerlo: quello di appropriarsi di linguaggi pop pur non facendo pop, per produrre un disco che alla fine si possa sia definire così sia non farlo. Insomma, un’opera a tutto tondo, prodotta perfettamente da un espertissimo Jon Brion, già  produttore di Dido, Keane, Fiona Apple e molti altri (e pure di soundtrack molto interessanti come quella di “Magnolia”, che gli è valsa un Grammy al fotofinish). Stona solo l’inizio di “Famine Affair”, che decollerà  successivamente per non lasciare nemmeno una briciola di bruttezza ad un disco che non finisce di stupire neanche dopo cinque, dieci, venti ascolti. Fatene buon uso.

Credit Foto: Christina Schneider