Ci sono band che sopravvivono agli sforzi dell’autopromozione e hanno la capacità  (non la fortuna) di accedere al sistema senza perdere di vista il senso di quello che fanno. C’è sempre il rischio che nel gioco complessivo qualcosa si perda: la fedeltà  a un’intenzione originaria, un singolo meno accomodante di quanto si vorrebbe fatto fuori dalla scaletta.

Ora, ci sono due strade per vincere la doppia emarginazione imposta dalla lingua e dal sistema discografico di questo paese. La prima consiste nell’ancoraggio a quanto di più nazionale ci sia, con la riesumazione di certi miti (Luigi Tenco, il calcio balilla e l’amara San Pellegrino). E’ una musica che rinvia sempre a qualcos’altro e che fa di questo il suo merito essenziale. La cognizione dei propri limiti non sarà  eccitante, ma negli ultimi dieci anni di canzone nostrana ha prodotto cose buone e in definitiva ha anche ammodernato certi suoni.

L’altra strada, che mi sembra più interessante, è quella che cerca di vincere le restrizioni del contesto.
A volte è troppo ammiccante nei confronti dell’estero, ma quantomeno ci sottrae al dolore dovuto all’evidente costatazione che i CCCP non ci sono più. Il fatto che la nostra avanguardia sia spesso la retroguardia di qualcun altro è un fenomeno ricorrente, ma capita che sia interrotto da circostanze brillanti. Lo hanno fatto i Marlene Kuntz con la musica sonica, non c’è ragione di pensare che non possa succedere ancora.

In realtà , accade in parte già  adesso: “Fiumedinisi” è uno dei pochissimi dischi italiani ascoltati di recente in cui non c’è il rimpianto ma c’è la fame. Per fortuna, è una voglia che non sbrana tutto. “Dei Tuoi Miracoli” e “Devo Tutto Alla Notte” hanno tessuti che resistono alla smania della propria ambizione; i Marlowe evitano l’effetto tappezzeria dei passaggi sonori troppo articolati propri del loro genere grazie un lirismo calibrato e secco. E sono cattivi ma sobri, “Fino Alle Ossa”.

“Fiumedinisi” non è particolarmente innovativo, ma l’effetto di questa constatazione è pari a zero, dato che si tratta di un difetto congenito alla gran parte degli atti creativi. Un difetto straordinariamente democratico, tra l’altro: i post-rocker scozzesi non sono per forza meno banali dei post-rocker siciliani. Cerchiamo di affrancarci da questo ricatto, e ammettiamo che si fa ottima musica anche non rivoluzionaria. A volte può bastare la fame.