Ora tutto è velleitario: andare in vacanza, medicarsi i denti, avere un’istruzione sulla media e indossare vestiti decenti, è tutto velleitario, optional, non garantito, conviene prendersi tutto e subito incuranti di gente che sbrocca, specialmente se quella gente resiste anche ad ogni tipo di musica generata e sdoganata da un cric o un croc. Jonathan Higgs non ha dubbi ‘nelle interviste’ e mette in allarme gli ascoltatori dei vergini “Everything Everything”- la sua band al debutto ““ da un ascolto segnato da fretta e svogliatezza, a questo ci pensano loro dalla periferia di Newcastle.

“Man Alive” oltre che il primo disco, è anche un tutto nel tutto che gira in un verso accesamente interessante e che può essere considerato come una nuova “figura padrina” della scena inglese; non quei dischi minimalisti che a furia di togliere non rimane altro che l’esistenziale, ma la panacea sonora come risposta al vuoto, la grazia del ‘pieno atmosferico’ che potrà  reggere benissimo il peso del tempo che ha già  prenotato un domani. E suona alla grande!

Ora se non si ha la pazienza di entrare in questo cestello vorticoso di suoni, profumi, sclerosi ed influenze potete accomodarvi oltre la linea recensoria, altrimenti attaccatevi ai corrimano della tracklist formulata da questi quattro ragazzi, Higgs, Pritchard, Robertshaw e Spearman, complici e architetti di una stratificazione sonora che riassume, ad una velocità  corroborante, la summa codificata del suono made in UK.

Estro bislacco o crossover skizzovagante? Niente di tutto questo, quasi un best contemporaneo che trasuda madidamente il mutante panorama del pop inteso come base di partenza per queste dodici traiettorie, una visione in tralice che prima disegna il grugno poi un sorriso di spalancato compiacimento; dunque si diceva aria fresca di falsetti e controvoci barocche Mercuryane “Two For Nero”, “Suffragette, Suffragette” l’energia scattante e pazza di Klaxon e Bloc Party “Schoolin”, lo spasmo epilettico di Byrne & soci “MY KZ Ur Bf” o le nebbiose sperimentazioni degli ultimi Radiohead “Final Form”, forme compiute declinate al piacere di un disco che coglie una via di fuga dalla monotonia o un’esaustiva interpretazione/passeggiata tra melodie e tic nervosi.

Attaccare contro questo bel disco di scarsa o addirittura ‘troppa ispirazione’ è come andare in Africa e lamentarsi del troppo caldo, è solamente una questione di contesti; bisogna solo verificare se anche questo rientra nel ‘velleitario’ di cui sopra, tra un medicamento di denti o un vestito decente.