La bellezza richiede tempo, soprattutto se ha l’intenzione di essere disarmante.
Feist ci ha messo quattro anni, per tornare, e nel frattempo ha disimparato le canzoni di The Reminder e ha sviluppato una singolare estraneità  nei confronti della chitarra. In una recente intervista rilasciata a Pitchfork, la cantante ha confessato che fissando lo strumento era convinta che “la sensazione” si fosse persa, e che non sarebbe stata riconquistata. E invece.

Allo stato dei fatti, Feist è forse l’artista più brava in circolazione a trovare uno spazio imprevisto tra la colonna sonora di un film con Drew Barrymore e una malinconia decisamente più privata, che non può essere condivisa; una donna che ha un talento tutto suo per il languore intrapsichico e le guerre a palpebre abbassate.

Se si esclude “The Circle Married The Line”- un verso che sottolinei a prescindere dalla convinzione, perchè sai bene che a rileggerlo lo troverai banale ma non puoi vincere la sensazione che sul momento ti stia dicendo qualcosa- non ci sono molti agganci rassicuranti in “Metals”.
Tutto il disco ha il tono di un’insinuazione. E un’insinuazione assestata bene fa molti più danni di qualsiasi dichiarazione di guerra: “Metals” non fa che rimetterti al tuo posto- “Comfort me”, per esempio- e ti spoglia prima ancora che tu faccia in tempo ad accorgertene.

Oltre all’apertura devastante- “The Bad In Each Other”- una versione meno vittimista di “Good Woman” di Cat Power dove Joni Mitchell diventa un fantasma anche se non è mai morta- c’è un singolo- “How Come You Never Go There”- che farà  trascorrere notti insonni a James Blake già  pronto a metterci le mani sopra se solo duplicarsi in questo senso non fosse un miserabile passo falso.

Voleva fare un disco difficile, Feist, qualcosa di non immediato ascolto: quando hai oltrepassato le soglie del gusto comune l’unica cosa che può salvarti è sfondare le porte della critica del rancore, ostile a prescindere. E’ una trappola in cui cascano artisti più navigati di lei, ed è anche un’aspirazione legittima. Questo tentativo si intuisce in diversi passaggi del disco e per stessa ammissione della cantante, che ha chiesto ai compagni di squadra Gonzales e Mocky di stemperare qualsiasi ritornello che accennava a farsi troppo ammiccante.
Ma la cantante non ci è riuscita, a fare un disco di quel genere, e lo sa bene. Considerato il risultato, dev’essere solo grata al suo talento per averne scavalcato le intenzioni: come sempre, un verso è più intelligente del suo autore e la bellezza richiede tempo, ma pretende anche comprensione.

Photo Credit: Sara Melvin & Colby Richardson