Dove vanno le papere del laghetto di Central Park quando ghiaccia? E che fine fanno le band quando si prendono un periodo sabbatico? Queste come milioni di altre sono le domande che non mi pongo, sono miliardi le cose che avvengono semplicemente sotto il mio naso e io non me ne interesso, probabilmente perchè sono continuamente distratto da qualcos’altro oppure perchè mi piacciono così tanto i discorsi che faccio da solo da dimenticarmi del contesto, che poi sarebbe il testo. Soffro il tempo che passa.
“Port Of Morrow” esce dopo cinque anni di silenzio pressochè totale da parte della band di Albuquerque (ormai di stanza a Portland, dove sennò?) e segna il passaggio dalla semi-major Sub Pop alla major totale Columbia, costola della mastodontica balena Sony. Per gli Shins si tratta del quarto album ma non avrebbe sfigurato come terzo al posto dello sfocato e a tratti loffio “Wincing the Night Away”, loro maggior successo commerciale va da sè. Che poi parlare al plurale con questa band risulta piuttosto imbarazzante essendo in realtà una creatura della mente brillante di James Mercer, che in questi anni non è stato certo fermo fondando il progetto Broken Bells con quell’altro geniaccio di Danger Mouse e seguendo lo stesso nella lavorazione del canto del cigno di Mark Linkous, lo stupefacente e struggente “Dark night of the Soul”.
Dopo aver imbarcato pezzi di Fruit Bats e Modest Mouse, non prima di aver licenziato nel vero senso della parola un paio di vecchi sodali, Mercer ha steso musica e testi con molta calma se è vero che già nel maggio 2009 si dichiarava all’opera sul nuovo disco. Ha saputo imparare dagli errori del precedente lavoro, recuperando almeno un pezzetto dell’antica verve, quella che stava alla base del capolavoro “Chutes Too Narrow”, album illuminato in ogni sua parte ad iniziare dallo splendido packaging, e limando le lungaggini dei pezzi più introspettivi. D’altronde appare chiaro che il nostro dia il meglio di sè quando alza il ritmo della composizione ed è così che nasce questo “Port Of Morrow”, che non è disco immediato nè eccelso, ma lo stesso parecchio gustoso (ottimo per chi ama il pop) e perfetto per iniziare la primavera. A partire dal singolo “Simple Song”, titolo azzeccato per un brano che sembra arrivare da lontano con i suoi coretti e il canto a gola spiegata di Mercer; sulla stessa falsariga si muove “Bait and Switch” appena più sincopata ed elettronica ma sempre fresco. Non mancano momenti più “mainstream” con eccessi di produzione (pare inevitabile nelle major) come in “No Way Down” ma l’ispirazione tirata a lucido del deus ex machina rende piacevole anche questa sensazione dolciastra, riuscendo persino a tenere in pugno i momenti più lenti (cosa non riuscita in “Wincing…”) come “September” e “For a Fool”.
“Fall of ’82” brano a cui sono particolarmente legato rende la definitiva conferma del ritrovato talento di un autore che si può di diritto inserire nel solco dei Paul McCartney e sua maestà Brian Wilson, con quei fiati così delicati e quelle stratificazioni di chitarre, per non parlare della chiusura col brano che dà il titolo all’album, puro deliquio Beatles mescolato a tutto l’indie americano migliore. Insomma James Mercer al suo (quasi) meglio.