Il gruppo in questione non ha certo bisogno di presentazioni. Da dieci anni a questa parte è riuscito ad imporsi, nella sua città  madre, la caotica e grigia New York, insieme a gruppi quali National, Interpol e Strokes, come portavoce di quel rock alternativo capace di affermarsi e conquistare buon seguito anche oltre oceano.
Non sarà  quindi cosa semplice, per i fan di lunga data dei Walkmen, abituarsi ad un cambiamento, pensare ai propri beniamini in versione, non del tutto, ma in gran parte, folkeggiante. State tranquilli, non li troverete con barbe che arrivano ai piedi e camicioni di flanella, rimangono sempre i soliti precisi ed eleganti Walkmen, ma nel sound”…beh nel sound ci sarà  più di una sorpresa. Sì, perchè il gruppo newyorchese guidato da Hamilton Leithauser,di ritorno dalla tournèe come gruppo di supporto dei barbuti Fleet Foxes non è riuscito a non cedere alle lusinghe del produttore di questi ultimi, Phil Ek, e fatti armi e bagagli si è trasferito alla volta degli studi di registrazione di Ek nel bel mezzo dei boschi di Seattle. Era perciò prevedibile, e difficilmente evitabile, una sorta di svolta.

“Heaven”, loro sesto album in studio dal 2002 ad oggi, suona quindi meno tagliente e se vogliamo cupo (a detta dello stesso Leithauser). Non mancano le chitarre graffianti, à -la “The Rat” per intenderci, che fanno la loro comparsa in “Heartbreaker”, “Love You Love” e “Heaven”, ma è la presenza di cori ‘ancestrali’, nella traccia di apertura “We Can’t Be Beat” affidati a Robin Pecknold, e di chitarre acustiche dal suono squisitamente folk (“Southern Heart”, “Line By Line”, “Song For Leigh” e “No One Ever Sleeps”) o il suono quasi tropicale di “Love Is Luck” a lasciare abbastanza confusi i fedeli ascoltatori.

Difficile prevedere se questo nuovo album vedrà  un maggior numero di fan delusi e amareggiati o sorpresi e allo stesso tempo entusiasti, di sicuro però il gruppo di New York dimostra di essere maturo e abile nello ‘sperimentare’ e nell’aprirsi a nuovi stili e influenze, e ancor di più a portare un tocco di colore al ‘grigiore’ della loro musica e della loro New York.
Ah, per il sottoscritto sono quattro stelline, su questo non ci piove.