Ore 20.30. Per i milanesi e per tutta quella che è la “Milano da bere” è ancora presto, non siamo abituati ai concerti a quest’ora. Sul sito dell’organizzazione c’era scritto “inizio concerto puntuale”, mi presento in orario con poca convinzione. Invece, mentre sono ancora al botteghino, ecco che già  mi arrivano all’orecchio le prima note. Andrew Bird, nessun gruppo spalla o di apertura al concerto, da solo sul palco, con il suo violino, alle 20.30 spaccate.

L’unica data italiana di Bird è stata intima, infrasettimanale, per gli appassionati che hanno saputo ritagliarsi uno spazio nel frenetico tram-tram quotidiano. La sala non è piena, la platea è raccolta e gode in silenzio di un’ottima acustica e visuale. Due grammofoni rotanti sul fondo del palco fanno da scenografia, e contribuiscono a portarci con la mente a Chicago, Illinois, città  di provenienza del musicista americano.

Nato come violinista, oggi Andrew Bird è un poliedrico polistrumentista. Neanche quarantenne, si presenta con una barba di qualche giorno, il violino tra le braccia, gli occhi chiusi per tutto il concerto, si fa trasportare dalle sue canzoni. Non possiamo certo definirlo un “animale da palcoscenico”, non interagisce con il pubblico, quando sbaglia si ferma e riparte da capo, quasi “pignolo”.
Inizia il concerto solo (così come ha iniziato la sua carriera, lui e il suo violino) con un pezzo del nuovo album “(Break It Yourself, 2012”), “Hole in the Ocean Floor”, seguito da un suo vecchio successo, “Why”.
Viene poi raggiunto dagli altri membri della sua band: Jeremy Ylvisaker alla chitarra elettrica, Mike Lewis al basso, Martin Dosh batteria, si infila la chitarra a tracolla e parte un’altra vecchia canzone, “A Nervous Tic Motion Of The Head To The Left”. E da qui comincia il concerto vero e proprio, che mostra chi è Andrew Bird oggi, e cioè non più un semplice violinista ma un cantante e strumentista a tutto tondo. Suona il violino senza archetto, pizzicandone le corde e tenendolo come se fosse un mandolino… suona la chitarra, lo xilofono, manda in loop i suoni per aggiungerci un pezzo per volta strati e melodie, canta… La sua voce conquista, ma quello che rimane impresso è il suo modo di fischiettare, preciso e intonato, che accompagna il ritornello di molte sue canzoni, rendendole orecchiabili e facendole imprimere nella mente di chi ascolta.

Seguono “Desperation Breeds”, traccia d’apertura di “Break It Yourself”, “Fiery Crash” (altro pezzo datato) e poi arriva la parte più magica del concerto: i musicisti si riuniscono attorno a un alto microfono che sembra in stile anni ’50, lasciano da parte gli strumenti elettrici per dedicarsi a chitarra acustica, contrabbasso e cori, proponendo una serie di brani in chiave acustica. Con “Three White Horses”, la band torna ai propri posti per un finale dalle sonorità  più cariche.
Al rientro, di nuovo in versione acustica con “If I Needed You” (di Townes Van Zandt), il pezzo country “Railroad Bill” e “Fake Palindromes” in full sound per il gran finale.
Usciamo. Sono passate da poco le 22.30. La notte è ancora giovane a Milano… ma per stasera, possiamo definirci più che soddisfatti così.

Setlist
HOLE IN THE OCEAN FLOOR (Solo)
WHY? (Solo)
A NERVOUS TIC MOTION OF THE HEAD TO THE LEFT
DESPERATION BREEDS”…
FIERY CRASH
DANSE CARIBE
EFFIGY
LUSITANIA
ORPHEO LOOKS BACK
EYEONEYE

— acoustic set —
GIVE IT AWAY
WHENT THAT HELICOPTER COMES (The Handsome Family cover)
MX MISSILES
SOMETHING BIBLICAL
THREE WHITE HORSES
PLASTICITIES, FATAL SHORE
TABLES AND CHAIRS

— encore —
IF I NEEDED YOU (Townes Van Zandt, Acoustic, cover)
RAILROAD BILL (Acoustic)
FAKE PALINDROMES

PHOTO CREDIT: KEITH KLENOWSKI