L’omone barbuto e occhialuto che a prima vista sembra il gemello intellettuale ed elegante di Er Piotta risponde in realtà  al nome di Matthew E. White, arriva da Richmond (Virginia) ed è il fondatore della Spacebomb Records nonchè del “Patchwork Collective”, il cui obiettivo è quello di dar vita ad una scena musicale tutta locale. Con alle spalle collaborazioni nei progetti di (tra gli altri) Justin Vernon e Sharon Van Etten, alla soglia dei 30 anni decide di uscire allo scoperto come solista pubblicando questo “Big Inner”.

La profonda ma incredibilmente felpata voce di Matthew e un basso presentissimo aprono in punta di piedi l’album: “One of these days” fiorisce pian piano arricchendosi di strumenti e versi d’amore (They say youth is a vision that we can’t see till we’re old / But you’re the sweetest revelation that these weary eyes will ever hold). Via a tutte le cartucce in “Big Love”, connubio eccezionale di soft blues con tanto di fiati e progressioni gospel. Proprio l’aspetto religioso cristiano risulta di grande importanza nel disco così come nella vita del robusto trentenne, figlio di devoti missionari cristiani.
Ecco allora riproposti i cori gospel nella dolce ballata “Will You Love Me”, nella commovente “Gone Away” ispirata all’uccisione di una cuginetta di quattro anni nell’ottobre 2010, così come nel blues che strizza l’occhio all’ Elton John versione “Tumbleweed Connection” – “Captain Fantastic” di “Steady Pace”.

Nella conclusiva, lunghissima quanto liberatoria “Brazon” gli ultimi tre o quattro minuti sono addirittura occupati da un mantra confessionalistico (Jesus Christ is our Lord, Jesus Christ He is your friend) tutto fuorchè smaccatamente stucchevole. Una di quelle dichiarazioni di fede che la musica ha il potere di amplificare e tali da rendere giustizia all’eventuale veridicità  dell’espressione “Christian rock” (con la quale molti dischi davvero molto poco rock vengono classificati). Da questo punto di vista, da quello cioè dell’importanza data al contesto religioso in generale accompagnandolo con una musica per così dire “profana”, Matthew E. White è a ragione accostato a Cat Stevens o al Bob Dylan “fedele”. L’aspetto musicale e quello lirico, insomma, non si pestano i piedi l’un l’altro, esaltandosi e risaltandosi anzi a vicenda. Non disdegnando neanche, in una matrice essenzialmente tradizionale, qualche (ma proprio qualche qualche) incursione in territori più sperimentali. Si prenda “Hot Toddies”: prima parte cinematica introdotta e sostenuta da sviolinate, quindi coda pseudo-jazz in cui i fiati rievocano vagamente le svirgolate stranianti à -la Henry Cow e l’incedere inquieto della voce e delle pulsazioni del basso anticipano l’ultimo Nick Cave di “Water’s Edge” (“Big Inner” viene infatti distribuito in questo 2013 dalla Domino, ma era già  uscito l’anno scorso su Hometapes).

Ci sono dei dischi in cui la gentilezza, la poesia e la nobiltà  musicali si sposano con quelle liriche. Questo è uno di quei dischi. Semplicemente irresistibile.