“Pedestrian Verse” degli scozzesi Frightened Rabbit è uno dei dischi che ho ascoltato di più all’inizio di questo 2013, per poi accantonarlo con l’arrivo dell’estate. Dopo due lavori molto interessanti come “The Midnight Organ Fight” e “The Winter of Mixed Drinks”, con questo quarto album sembrano avere trovato la compiutezza della loro formula che rimanda ai migliori Snow Patrol ma in cui sento anche venature delle melodie dimesse dei Teenage Fanclub.
Arrivo a Brixton carico di aspettative e dopo un breve ripasso dell’ultimo album in metropolitana non vedo veramente l’ora di sentire i nuovi pezzi dal vivo. Entro alla O2 Academy alle 8 in punto, quando il primo cambio palco sta per concludersi e vanno in scena i conterranei We Were Promised Jetpacks. Hanno un paio di pezzi killer tra cui il primo, costruito come un piano sequenza su un unico riff di chitarra. Per il resto mi ricordano parecchio i Frightened Rabbit di quando li vidi anni fa ad un ATP festival: rock fatto di pancia e di cuore, non sempre memorabile ma estremamente onesto e genuino.
Nel frattempo i Frightened Rabbit hanno firmato per Atlantic e visto il successo di critica e pubblico che ha accompagnato il nuovo album, immaginavo che le atmosfere stavolta per loro sarebbero state diverse. L’impressione globale alla fine del concerto sarà quella di una band che sta attraversando esattamente quel difficilissimo momento in cui è necessario fare i conti con il proprio successo. Mi torna alla mente la prima volta che i Baustelle riempirono il Rolling Stone a Milano all’uscita de “La malavita” e come dopo di allora mi sembrarono trasformarsi in una band differente, dall’innocenza inevitabilmente perduta.
“Holy” è il loro nuovo singolo ed il pezzo a cui affidano l’apertura. La scenografia ha ambizioni di grandezza ma si ferma un po’ a metà strada, con due enormi lettere F e R sullo sfondo. You’re acting all holy canta Scott Hutchinson e verrebbe da ribaltargli l’osservazione. I volumi sono esagerati, non tanto per i decibel ma per il fatto che schiacciano ogni suono oltre la soglia di saturazione. C’è una palpabile ansia da grande pubblico che Scott dichiarerà poco dopo dicendo onestamente che “quando ho formato una band non pensavo saremmo arrivati ad essere headliner a Brixton”. “December’s Traditions” avrebbe le potenzialità per essere un fantastico pezzo live ma versi come After months of grieving / Fuck the grief I’m leaving / Will you leave with me? sono scanditi di fretta e non hanno neanche un ricordo del pathos che esprimono sul disco.
Poco dopo Scott stesso ammette che è difficile cantare canzoni tristi con un pubblico così entusiasta. Anche quando si lancia coraggiosamente in un brano chitarra e voce senza ausilio di amplificazione (e deve chiedere al pubblico di non cantare in coro per avere qualche speranza che il suono arrivi fino in fondo alla sala) è più il suo primo esame da rockstar che qualcosa di intimo come sarebbe stato forse qualche anno fa. Solo quando dedica un vecchio pezzo a quelli che hanno ascoltato o comprato il nostro primo disco” l’ovazione è più contenuta e si limita ad alcuni settori della sala, e il momento suona più autentico da entrambi i lati del palco.
Poi saranno le due Carlsberg annacquate, sarà la stanchezza, ma la parte centrale del concerto non lascia molte tracce nella mia memoria, proiettandomi in uno stato catatonico simile a un rave rock in cui le uniche emozioni sono quelle primitive dei bassi che rimbombano in pancia e di un accumulo di chitarre elettriche che stordisce. Verso il finale le cose migliorano con una esecuzione più che dignitosa di “The Oil Slick”. Decido che è il momento di arretrare e provare a vedere la band da un’altra prospettiva. Dal fondo della platea il suono di “Acts of Man” è estremamente più ovattato e la saturazione dei volumi diventa un espediente per mascherare la paura di non essere pronti a un pubblico così ampio, lo smarrimento di un gruppo che aveva sempre dato l’impressione di ambire a riempire gli stadi e ci sta finalmente arrivando vicino.
Parafrasando una vecchia battuta di Michael Stipe, sembra che i Frightened Rabbit cerchino più di essere grandi che di essere bravi. A distinguerli da dei Negramaro qualunque su un finale tamarrissimo, c’è ancora una volta la vera sorpresa di questo concerto, il chitarrista/bassista/tastierista sulla destra della band che è stato responsabile di tutte le migliori invenzioni musicali, spesso riff aggiunti in contrappunto ad arrangiamenti piuttosto banali e che danno un secondo livello di profondità a una band che ha sempre avuto buone canzoni al suo arco ma che rischia di perdersi proprio quando questo gli è stato finalmente riconosciuto. Arrivato a casa vado a cercare qualcosa di più su di lui, una specie di incrocio tra Erlend à’ye e Graham Coxon: si chiama Andy Monaghan e a giudicare dal suo tumblr (http://fuckyeahandyfrabbits.tumblr.com) sembra un hipster narcisista. Nessuno è perfetto.