Nuovo album per i Pink Mountaintops e già questa è una notizia, visto che dal 2009 si erano perse un po’ le tracce dell’ “l’altra” band (parallelamente ai Black Mountain) di Stephen McBean. L’indie rock gioioso e raffinato sperimentato nei tre lavori precedenti (“Pink Mountaintops”, “Axis Of Evol” e “Outside Love”) stavolta lascia il posto a una folle orgia classic rock e garage che sembra suonata da un ragazzino che si è appena scolato il suo primo pacchetto da sei di birra, fregandolo di nascosto dal frigo. Tutta colpa di uno shock culturale: McBean infatti si è recentemente trasferito stabilmente dalla tranquilla Vancouver alla tentacolare e corrotta Los Angeles.
“Get Back” è un ode alla giovinezza perduta, al vigoroso rumore che il buon Stephen amava da teenager. Parola d’ordine di ogni canzone: cantala come se avessi sedici anni ma se te lo chiedono dì che ne hai ventuno (prima infatti in America non si può bere legalmente e di alcool durante le registrazioni del disco ne deve essere scorso a fiumi, insieme ad altre interessanti sostanze). Dieci pillole di rock puro, senza additivi nè conservanti, musica che non si vergogna affatto di viaggiare sulla stessa strada percorsa tempo addietro da Johnny Thunders, dai Velvet Underground e dai Rolling Stones di “Sticky Fingers” aggiungendo qualche sassofono (chi l’avrebbe mai detto), malefiche influenze alla NEU! e lo spirito anarchico delle compilation stile Nuggets che fa capolino in “Shakedown” e “Sixteen”.
Sembra quasi che McBean abbia voluto vivere la sua personale “Rock n Roll Fantasy”, giusto per citare uno dei pezzi più riusciti dell’omonimo album d’esordio dei Mountaintops, durante le registrazioni di questo disco numero quattro. Chiamando qualche illustre amico (J. Mascis dei Dinosaur Jr, Rob Barbato dei Darker My Love, Steve Kille dei Dead Meadow, Daniel Allaire dei Brian Jonestown Massacre, Annie Hardy che si scatena nell’esilarante e licenziosa “North Hollywood Microwaves”) a dare una mano. Il risultato è un divertentissimo gioco di ruolo in cui Stephen rende omaggio ai suoi idoli. Un piccolo, gustoso bignami della storia del rock che non vuole essere altro nè pretende di essere altro.