Sin dalle prime tracce svelate in rete, anzi sin dal primissimo teaser di questo quarto album degli scozzesissimi Twilight Sad, si poteva intuire che qualcosa di grande era accaduto nei Castle of Doom studios di proprietà  degli amici e compratrioti Mogwai, dove sono state registrate tutte le canzoni. Il percorso dei Twilight Sad è un percorso sottotraccia, basato su svariate solide performance dal vivo e su una carriera nascosta ai più ma sin’ora fulgidissima, grazie a tre altri album eccezionali, sin dal primissimo, indimenticabile lavoro di debutto (e ora glorificato grazie ad alcuni concerti celebrativi nei quali è stato suonato per intero) “Fourteen Autumns And Fifteen Winters”.

Questo cammino nella penombra – nomen omen ““ raggiunge il suo apice assoluto nella sfolgorante oscurità  (mi si perdoni l’ossimoro) di questo nuovo “Nobody Wants To Be Here and Nobody Wants To Leave”, testimonianza e implicito racconto di una ““ come d’altronde indica il titolo ““ impasse, da considerare a più livelli: emotiva, esistenziale, fisica e concettuale. Il disco sublima sia a livello contenutistico che a livello musicale il discorso e le formule, se così si può dire, intrapresi dal gruppo durante la seconda metà  dello scorso decennio.
Le notti sono ancora intrappolate in tunnel troppo stretti per uscirne vivi incolumi, le distanze si allungano ma i pochi contatti divengono più intensi. L’angoscia trascende in una elegante e al contempo rumorosa disperazione bagnata da xilofoniche stille di synth quei synth che quasi sempre definivano le strutture dei brani del precedente “No one Can Ever Know” e qui invece a volte finiscono con il ricamare piccoli dolceagri intarsi melodici, oltre a dipingere glaciali scenografie orchestrali. E dunque questa impasse, molto probabilmente la stessa che stava portando la band in un punto di ritorno e cioè la probabile dissoluzione, come apprendiamo da alcune intervista al vocalist James Graham, è il motore e il baricentro di questo capolavoro. L’accettazione di un karma e il rifiuto dello stesso. L’osservazione del paesaggio d’oblio che ne deriva. Ma ne deriva anche un approccio più monumentale ma anche più umano che mai, corroborato dai bentornati wall of sound shoegaze, da venature pseudo-kraute e da scorie di wave industriale e notturna, mentre il drumming punteggia spesso i brani con colpi di ride come gocce di pioggia in un inverno acido e impenetrabile.

La scaletta vede alternarsi monoliti di mauditismo dalle fondamenta in frantumi (“There’s a girl in the corner”, “I Could Give You All That You Don’t Want”, “It Was Never The Same”) e cavalcate spettrali dal cuore caldissimo (“Last January”, sorta di “I Can’t Escape Myself” dei Sound stravolta in chiave romantico-apocalittica, e “Drown So I Can Watch”, dal delizioso e sorprendente finale a base di linee vocali intrecciate e agili ritmiche), che si impongono come il termine di paragone per tutti i gloom-rocker degli anni 10. Ma i Twilight Sad sugellano la loro evoluzione con inaspettate ballad noir coi contorni sfocati dall’apparenza derelitta ma dal retrogusto dolciastro (“Pills I Swallow”, “Sometimes I Wished I Could Fall Asleep”, la più maestosa “Leave The House”), con pregiati numeri da noiser elettrico-elettronici con in aggiunta pure fiati folkeggianti a supporto nelle retrovie (la titletrack), e con incursioni in un death-rock ghiacciato dalle sfrangiature incubico-spaziali e dall’incedere granitico (“In Nowheres”).

Possiamo dunque affermare senza timori reverenziali che “Nobody Wants”…”, il lavoro più intenso e complesso dell’ora trio ma stranamente anche quello dal respiro più ampio, può essere considerato il “Turn On The Bright Lights” degli anni 10, con in aggiunta un maledettismo in un certo senso più vulnerabile, impresso nell’artwork come al solito intriso di sinistra inquietudine e malinconia vintage. Ma la subdola, tormentata impenetrabilità  delle parole di Graham, con quel suo accento sempre pesantemente scozzese, e le atmosfere prive di qualsiasi coolness ma tutte incentrate su una epicità  d’altri tempi, così umana e così aliena (ma in realtà  perfettamente ancorata ad un sobrio spleen dal sapore attualissimo), probabilmente intrappoleranno la band nel culto di un limbo eternamente impigliato nelle pieghe dell’underground, mentre il popolo pitchforkiano si girerà  da tutt’altra parte in cerca di nuovissime caramellose mode. Intanto, questo per noi rimane IL disco del 2014.