Posizioni: [ #50 – #41 ] / [ #30 – #21 ] / [ #20 – #11 ] / [ #10 – #1 ]

#40) DAMIEN JURADO
Brothers & Sisters Of The Eternal Son

[Secretly Canadian]
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Ammetto di aver pensato di usare il testa o croce con una moneta per decretare il primo e il secondo posto della mia top 10 2014. Damien Jurado ha dato alle stampe un disco favoloso, classico fino al midollo eppure senza tempo. O, per meglio dire, il tempo dei grandi cantautori della tradizione americana di cui si sente sempre la necessità .

Se non l’ha spuntata, è solo perchè ho voluto premiare atmosfere più algide che hanno toccato particolarmente le mie corde soprattutto nella seconda metà  dell’anno, in cui il mio rapporto con la musica sembra essere almeno momentaneamente cambiato in favore di emozioni più rare e distaccate.
( Enrico “Sachiel” Amendola )

#39) Dean Blunt
Black Metal

[Rough Trade]
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Dean Blunt, il sax, l’identità  ed una visione che non può più essere unilaterale. Bellissima l’intervista in cui dice: TV is my life [“…] I have a TV in every room of the house. E successivamente quando gli viene chiesto se critica o celebra il mezzo, la risposta mi apre il cuore: I don’t see anything as low or high or anything like that. That’s how you know if someone is smart or not, if someone can really have an understanding of so many different things from so many different angles and still be completely immersed in it.

Poi immagino Gad Lerner che pontifica e dall’alto della sua purezza mi spiega come, su cosa e quando indignarmi. Rido e torno ad ascoltare “Black Metal”. Ci trovo droni, folk ubriaco, dub ed elettronica stonata.
( Alessandro Ferri )

#38) EMA
Future’s Void

[City Slang]

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Il futuro, prima, assomigliava a una freccia, una linea, un posto bellissimo in cui non vedevamo l’ora di arrivare. Poi le pareti hanno cominciato a scrostarsi, i muri a cadere e ci siamo messi la carta argentata intorno alla testa per non farci leggere i pensieri dagli extraterrestri.

Erika M. Anderson scrive un secondo album sulle distanze tra i pianeti e la nostra pelle, su come i ragazzi sidisegnino costellazioni di beauty marks. Erika M. Anderson racconta di quando eravamo alieni.
( Sara Marzullo )

#37) MAC DEMARCO
Salad Days

[Captured Track]
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L’ha fatta grossa Mac DeMarco. Dopo essersi imposto con la sua spiccata scanzonateria anche in “Salad Days” le sue canzoni che sembrano esser fatte per un piccolo garage dove strimpellare e buttare giù quello che si ha dentro sono diventati tormentoni alternative. Pezzi scanzonati, sognanti, sfuggevoli, leggeri quasi mai impegnativi ma nemmeno banali.

La title track è un piccolo gioiellino e una dopo l’altra le canzoni sono riuscitissime. Evadi e ti lasci andare nei meandri del pop, quello che pochi veramente conoscono.
( Angelo “The Waiter” Soria )

#36) WILD BEASTS
Present Tense

[Domino]
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Seta sintetica

Gli art-rockers dal tocco vellutato sfoderano trame sempre più sintetiche e una
veste sempre più elegante e abbagliante. “Present Tense” è il punto più alto di un
cammino meraviglioso.
( Luca “Dustman” Morello )

#35) BARBARISMS
Barbarisms

[autprodotto]
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Un album davvero impressionante, considerando anche che si tratta di un debut (anticipato in Agosto dall’uscita del singolo “Easier All The Time”, brano che apre il disco). Un album da ascoltare tutto d’un fiato, dove ogni pezzo costituisce un tassello perfetto e necessario per costruire lo splendido quadro finale.

“Backwards Falconer #2” (con echi di Neil Young) è un pezzo da brividi che ti fa venir voglia di praterie e strade da percorrere. Canzoni come “Katherine Anne Porter”, “I Won the Nothing” o la conclusiva “Figures of Men” sono, ognuna a suo modo, tre ottimi esempi del mix di melanconia ed avventura (non so cosa voglia dire davvero questa definizione. Forse è la definizione di “Into the Wilde?”) che caratterizzano questo debut.
( Triste )

#34) BRUCE SPRINGSTEEN
High Hopes

[Columbia]
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“High Hopes” è tutto fuorchè un concept album, non ha un filo conduttore nè una trama, ma in questo caso la mancanza di compattezza non va a demerito della qualità .

E’ un caleidoscopio di variabili impazzite, si passa da pezzi in puro stile Boss folk-rock, alle contaminazioni metal-guitar di Tom Morello. Proprio quest’ultimo ha dato nuova vita ad un, forse, annoiato Springsteen, che dopo “Wrecking ball” ha innescato nuove vie sonore con questo album.
( Maurizio Donini )

#33) ALDOUS HARDING
Aldous Harding

[Lyttelton Records]

Nove canzoni talmente vicine alla perfezione da risultare commoventi ed emotivamente devastanti, una voce personalissima (come non se ne sentiva dall’esordio di Angel Olsen), arrangiamenti misurati che conferiscono personalità  ad ogni singolo brano, controcanto maschile di rara efficacia: questi sono gli ingredienti di un album folk atemporale e fuori moda.

Tanta improvvisa bellezza può risultare terrificante e appagante al tempo stesso
( L’Attimo Fuggente )

#32) THE TWILIGHT SAD
Nobody Wants To Be Here And Nobody Wants To Leave

[Fat Cat]
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Possiamo dunque affermare senza timori reverenziali che “Nobody Wants”…”, il lavoro più intenso e complesso dell’ora trio ma stranamente anche quello dal respiro più ampio, può essere considerato il “Turn On The Bright Lights” degli anni 10, con in aggiunta un maledettismo in un certo senso più vulnerabile, impresso nell’artwork come al solito intriso di sinistra inquietudine e malinconia vintage.

Ma la subdola, tormentata impenetrabilità  delle parole di Graham, con quel suo accento sempre pesantemente scozzese, e le atmosfere prive di qualsiasi coolness ma tutte incentrate su una epicità  d’altri tempi, così umana e così aliena (ma in realtà  perfettamente ancorata ad un sobrio spleen dal sapore attualissimo), probabilmente intrappoleranno la band nel culto di un limbo eternamente impigliato nelle pieghe dell’underground, mentre il popolo pitchforkiano si girerà  da tutt’altra parte in cerca di nuovissime caramellose mode. Intanto, questo per noi rimane IL disco del 2014.
( Luca “Dustman” Morello )

#31) FHLOSTON PARADIGM
Phoenix

[Hyperdub]

King Britt, con il suo esordio a nome Fhloston Paradigm: con un alias che cita direttamente Besson e “Il Quinto Elemento” è quasi inevitabile parlare di fantascienza e futuro. Anzi: afrofuturismo.

Uscito per Hyperdub, “The Phoenix” è un meraviglioso, enorme compendio di techno e black music: le quattordici tracce del disco vanno a disegnare un viaggio unico e irresistibile, che dall’Africa si spinge verso lo spazio cosmico e siderale, che alla potenze del groove aggiunge pure un gusto intellettuale e cerebrale mai sterile, ma ricco e ingegnoso.
Si parla spesso di capolavori, ma poche altre volte il termine è stato altrettanto calzante.
( Nicolò “Ghemison” Arpinati )

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