I Blur si sciolgono nel 2003: Graham Coxon lascia durante le registrazioni di “Think Tank”. Un album lontanissimo dagli esordi, più complesso, ma in qualche modo espressione dello zeitgeist di quei primi anni zero. Più che sciogliersi, è come se i Blur schiacciassero il tasto pausa o si mettessero in congelatore. Da quel momento (in realtà anche da prima, visto che i Gorillaz nascono nel 1998) si dedicano a progetti in solitaria che vanno dal suonare con musicisti maliani al comporre musica per un musical basato su un romanzo cinese del XVI secolo, dal produrre formaggi al candidarsi tra le fila del Labour Party, dal registrare un album all’anno per cui la parola sperimentazione è un eufemismo all’organizzare un festival musical-culinario con Jamie Oliver, dall’occuparsi di critica culinaria sulle più importanti testate britanniche alle inchieste sulla cocaina.
Passano gli anni e i Blur sono ancora fermi, come la zanzara intrappolata nell’ambra: sono il segno di un passato che sembra impossibile far rivivere (nonostante non desideriamo altro), un passato sicuramente più felice del presente, un passato a cui tutti guardiamo con una certa nostalgia. Una nostalgia che abbiamo cercato di mitigare consumando i dischi di ogni nuovo progetto di Damon Albarn (i già citati Gorillaz, The Good, The Bad and The Queen, Rocket Juice & The Moon), fino al culmine di un percorso che, mentre sembrava allontanarlo da sè, l’ha portato dritto dritto ad affrontare la propria storia.
Poi, nel 2009, Damon, Graham, Alex e Dave tornano insieme per due concerti a Hyde Park. Curiosamente, poco più di un mese dopo, i grandi rivali (dualismo creato ad hoc dalla stampa) degli Oasis si sciolgono, dopo l’ennesimo litigio tra i fratelli Gallagher.
L’anno dopo escono “No Distance Left to Run”, documentario sui concerti di Hyde Park, e, in occasione del Record Store Day, il singolo “Fool’s Day”.
Nel 2012 suonano ai BRIT Awards, dove ricevano il premio “Outstanding Contribution to Music”: un premio alla carriera è la parola fine? Equivale alla trasformazione in macchina della nostalgia, a monumento di se stessi e di un’epoca?
Nello stesso anno, i Blur suonano alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra: sono loro gli unici che hanno saputo riassumere lo spirito britannico degli ultimi due decenni? Adesso che gli Oasis non esistono, solo i Blur hanno la forza identitaria capace di catalizzare i desideri e le frustrazioni di un popolo?
Ancora uno e poi basta: nel 2013 Damon e soci tornano su palco per cinque date, quattro in Europa e una in Asia, a Hong Kong. Proprio Hong Kong avrà un ruolo fondamentale per la genesi di “The Magic Whip”: il Tokyo Rocks Music viene cancellato, i Blur allora si fermano a Hong Kong per cinque giorni e si chiudono a suonare agli Avon Studios. Passati quei cinque giorni, le registrazioni con gli occhi a mandorla finirebbero archiviate in un hard disk, se non fosse per Graham Coxon. Lui, quello che aveva abbandonato proprio durante le sessioni di “Think Tank”, l’ultimo segno lasciato dai Blur. Graham lavora al materiale di Hong Kong insieme a Stephen Street (produttore di “Modern Life is Rubbish”, “Parklife”, “The Great Escape”, “Blur”). Lo fa quasi di nascosto, visto che il resto della band non è proprio intenzionato a farne un album. Coxon lo fa perchè vuole riconciliarsi con il suo passato, vuole cercare di rimediare a vent’anni di lontananza dal suo amico Damon. A quest’ultimo non resta che tornare a Hong Kong per cercare l’ispirazione e scrivere i testi.
Meglio essere chiari subito: “The Magic Whip” non è frutto dell’estrazione del dna della zanzara intrappolata nell’ambra, non è un’operazione nostalgia fine a se stessa. I Blur non hanno niente da dimostrare. I concerti fatti dal 2009 al 2013 l’hanno reso evidente a tutti: avrebbero potuto continuare all’infinito a fare mega concerti sempre sold out, a suonare sempre la stessa setlist in modo impeccabile, lasciando tutti soddisfatti e contenti. Possono permettersi di mettere insieme un disco come “The Magic Whip”: strano, eterogeneo, imperfetto, straniante (come se aggiornassero il sentimento di “Lost in Translation” e lo rendessero di nuovo contemporaneo).
L’incipit è folgorante: “Lonesome Street” ci riporta nei territori di “Modern Life is Rubbish” e di “Parklife”, there’s nothing to be ashamed of a ricordarsi delle proprie radici. I riff di Coxon, la voce strafottente di Albarn e l’andatura felicemente brilla della sezione ritmica sono un tuffo al cuore: non sono passati più di vent’anni, possiamo ancora stringerci in un abbraccio alcolico e cantare And if you have nobody left to rely on/I’ll hold you in my arms and let you drift/Going down to Lonesome Street.
L’altro momento in cui si sentono echi degli esordi è “Go Out”: pop sgangherato, tutto spigoli e riff abrasivi, quel to the local più urlo da pub (appunto) che da stadio, il basso di Alex James teso e pervasivo, i suoni di un videogioco, così onnipresenti in città come Hong Kong o Tokyo a dare un tocco straniante. è come se “Go Out” riprendesse i protagonisti di “Girls & Boys”. Il ragazzo e la ragazza sono cresciuti, ma la frustrazione non si è dissolta, anzi: è come se un muro li dividesse e allora non resta altro che il by myself, fino ai versi finali, in cui il desiderio di uscire e di ballare e di raggiungere quel local (tanto simile a una terra promessa in cui dimenticare le frustrazioni e le ansie di tutti i giorni) della ragazza si risolve nell’unica azione possibile: la masturbazione.
Ci sono alcuni passaggi a vuoto ( “I Broadcast” e “Ghost Ship”) che danno l’impressione di essere più dei riempitivi, certo, ma ai Blur possiamo anche perdonarli, specialmente se sono capaci di scrivere canzoni come “Thought I Was a Spaceman”, quasi sei minuti di elettronica che sembra venire dalla navicella del mai dimenticato Major Tom; “My Terracotta Heart”, meraviglioso tentativo di lenire e rimarginare una ferita del passato, quella che ha portato alla rottura tra Albarn e Coxon dodici anni fa; “There Are Too Many Of Us”, distopica fin dal titolo con la citazione di “Farheneit 451” di Ray Bradbury, una marcetta trattenuta all’inizio che si libera solo dopo un minuto e mezzo. Merita un discorso a parte la bellissima e malinconica “Pyongyang”. Fin dall’inizio è chiaro il terreno in cui si muove: uno scampanellio inquietante che sembra provenire da una terra di nebbie e di fantasmi, un basso new wave a stendere campiture di colori scuri, altri suoni stranianti. La cupezza dei suoni si sposa con uno dei testi più belli scritti da Damon Albarn, che restituisce le impressioni di un viaggio nella capitale della Corea del Nord. Quello che colpisce sono i tocchi di colore che esplodono in mezzo a quest’atmosfera tesa, da fine del mondo: i great leaders sono bagnati da una luce rosa (una luce al neon come quella del gelato in copertina?) che sta svanendo, il sole sta tramontando e trascina un velo blu sul cielo, la minaccia dei missili si tinge d’argento e Pyongyang è costellata di alberi di ciliegio e delle promesse dei loro fiori.
“The Magic Whip” dimostra ancora una volta la capacità dei Blur di saper cogliere lo zeitgeist, tutta la loro abilità nella costruzione di canzoni capaci di catalizzare atmosfere e stati d’animo. I Blur non sono diventati un monumento di un’epoca e di un certo tipo di suono. Non parlano solo la lingua british. Il loro sguardo è maturo e capace di leggere il mondo come pochi riescono a fare.
“The Magic Whip” è l’istantanea di quattro amici che tornano in studio dopo dodici anni. E va bene se è un po’ sfocata, se ci sono delle imperfezioni: è bellissima così.