Il momento perfetto per ascoltare il nuovo lavoro di Glen Hansard è un pomeriggio inoltrato, possibilmente con la prima pioggia autunnale che fa da sottofondo fuori dalla finestra, lasciandosi abbracciare dal calore della sua voce e dai suoi testi evocativi, che ci fanno distogliere l’attenzione dal fischio della teiera che viene dalla cucina.

Avevamo lasciato Glen qualche anno fa, il 2012 per la precisione, con il suo primo lavoro da solista, “Rhythm And Repose”. Un successo di critica e pubblico che arrivò dopo un periodo cupo e buio per il busker irlandese. Si busker, perchè questo è sempre stato e continua ad essere Glen Hansard, un cantante di strada che ama raccontare emozioni e lasciarsi a sua volta emozionare da quello che vede e ascolta nei suoi spostamenti da un capo all’altro della città  in cui si trova in quel momento. Il periodo buio che inizia con la conquista di un Oscar per la migliore canzone nel lungometraggio “Once”, il che già  ci dice molto su chi sia Hansard. Un avvenimento che avrebbe sconvolto chiunque, forse fatto sentire arrivato qualcun altro. Sicuramente avrebbe rappresentato il volano perfetto per la carriera di un artista. Non per lui. Glen si chiude in sè, si sente perso, inizia a bere. Tutta quest’attenzione che fino a quel momento gli era stata lontana e misurata, lo disorienta.
L’attenzione preferisce darla anzichè riceverla. Riesce a venirne fuori con l’unica cosa che lo fa sentire in pace col mondo, scrivendo musica e non fermandosi mai.

Per il nuovo lavoro, decide di reinventarsi per l’ennesima volta. Ricomincia a viaggiare allora: New York, Chicago, la Francia e poi rotta per Dublino, casa. è seguendo questa rotta che un pezzo alla volta nasce “Didn’t He Ramble”. Album che non si discosta dal primo per lo stile e la sincerità  dei testi, ma più per gli argomenti trattati: se in “Rhythm And Repose” l’immagine che ci veniva trasmessa era quella di un amante tormentato, ora Hansard ci parla di amicizia e famiglia.

L’incipit del disco è solenne, “Grace Beneath The Pines” ci da il benvenuto, cosparsa di un alone di mistero come per non scoprire tutte le sue carte. Gli arrangiamenti in questo caso comprendono fiati e violini che accompagnano la voce che con il passare dei secondi diventa sempre più calda e avvolgente.
Lo stile rimane soffuso continuando con un altro brano fondamentale, “Wedding Ring”, in cui potremmo ritrovarci, per la nostra mania di associazione, un Bruce Springsteen rivisitato. Gli ascolti e il backgroung musicale necesariamente influenzano la scrittura di Glen Hansard, tra la quale non poteva mancare un’elegia nello stile di Bob Dylan, “Winning Streak”, che per me rappresenta il fulcro del disco a livello etimologico che il cantautore ci vuole lasciare: una lettera scritta ad un caro amico per infondergli coraggio contro le avversità  di tutti i giorni e sottolineare la stima nei suoi confronti nonostante tutto, un promemoria da tenere nel portafoglio e tirar fuori nei momenti più duri. Il tutto impreziosito dalla presenza della voce di Sam Beam degli Iron & Wine.
“Her Mercy” è il brano con cui chi conosce da tempo Hansard ed è stato ad un suo live, finisce per innamorarsi del disco, una motivational track che ha una base di gospel e con un sofisticato uso dei fiati nel finale. In “McCormack’s Wall” troviamo un chiaro riferimento alle radici del folk irlandese sottolineato dalla partecipazione di due Dubliners d.o.c. come John Sheehan e Sarah Lynch.

Nonostante il concepimento nomade del disco in giro per il mondo, con sosta nel loft dei Wilco a Chicago e nei Black Box Studio in Francia, e la difficoltà  di Hansard a concentrare la sua vena artistica da animale da palcoscenico in uno studio di registrazione, l’album non perde di coesione e non viene perso il filo conduttore tra un brano e l’altro. Gran merito di ciò è da attribuire alla produzione di Thomas Bartlett (The National, David Byrne e Sufjan Stevens su tutti) con il quale c’è una conoscenza di lungo corso sin dai tempi dei Frames.

Possiamo considerare “Didn’t He Ramble” come una di pausa di riflessione da parte di Glen Hansard, in cui si ferma, prende fiato, fa il punto su quelle che ritiene siano gli elementi importantie getta un altro po’ di certezze sui pilastri che compongono e sorreggono la sua carriera. Un disco non sopra le righe rispetto al suo predecessore, ma quanto mai onesto intellettualmente e artisticamente.