C’è un tipo di perfezionismo che è così estremo da risultare quasi asettico.
E’ quello di chi scrive preciso i numeri dentro ogni quadretto del quaderno, senza svirgolare.
Quello che si ammira e si fatica a comprendere.
Ci sono gli Aucan e “Stelle Fisse”.

Una stella fissa è quel punto di riferimento che rimane lì mentre tutti il resto passa.
La difficoltà  sta nel trovarle, queste stelle fisse, quando si analizza la musica di questo trio bresciano.
Sulla lunga distanza, li avevamo lasciati con “Black Rainbow”: un album elettronico che non sembrava un dj-set ma un grosso e potente live, un felpa con il cappuccio abbandonata sul pavimento appiccicoso di un club.
Poi c’è stata quella breve parentesi con la Ultra Records, i bassi pieni e la cassa che colava grasso.
“Insomma, i ragazzi stanno svoltando ed un suono più edulcorato ci sta, dai.”

Sono quelle storie che sembrano già  scritte: lieto fine, vissero tutti felici e contenti e titoli di coda mentre scorrono le immagini di un featuring con Gualazzi a San Remo.

Invece no, a volte la vita ci sorprende e si rompono quelli schemini, quelle scalette che ti portano su dall’underground, alla luce del sole, sul main stage.
Penso che sia una cosa legata alla natura di un artista, non alla sua onestà  (per carità ).
Gli Aucan si sono accorti di essere qualcosa di diverso, e si sono ricordati che sì, insomma, l’EDM li fa un po’ cagare. (non invento nulla, l’ho letto in varie interviste)

Ecco, questo è il mio punto di partenza con “Stelle Fisse”, la curiosità  nello scoprire come suona chi ha conosciuto la grande etichetta ma che ha deciso che per lui fosse meglio di no.
La risposta a questa mia curiosità  è un grosso, enorme, monolite. Senza spigoli, levigato.
Un lavoro minuzioso, certosino, solido, omogeneo.
Un lungo tappeto di synth, che si snoda per una manciata di tracce, senza mai vacillare, quasi sempre uguale a se stesso, coerente.

Veramente, fa quasi paura da quanto sia compatto, un viaggio circolare: si potrebbe prendere qualsiasi traccia e partire da quella ed il risultato sarebbe lo stesso. Cioè, una carrellata di suoni sintetici messi in colonna con un righello, intervallati da un vocoder che sa un po’ di Daft Punk, un po’ Burial, ed un po’ del bagnino che al mare annuncia bambini da ritrovare o macchine da spostare, attraverso un microfono polveroso .

E’ tutto così granitico, insondabile e nucleare da essere quasi impossibile per me affrontarlo in parti, analizzando brano per brano.
Pure quando ci sono piccole distorsioni all’interno dello stesso grande spartito, piccole svolte, come in Friends o Errors, in cui l’eleganza assume un suono più pieno ed il basso è più club-friendly.
Perchè rimane sempre la stessa cura maniacale, la stessa ricerca della perfezione sintetica.
Sia nella gran cassa e nelle percussioni ovattate di Disto, sia nei synth claustrofobici e labirintici di Grime 3.
E quando arriviamo alla suite finale, quella Cosmic Dub vellutata e spaziale, non sussultiamo perchè ormai non possiamo aspettarci nient’altro.

Sapete quelli che quando voglio fare un complimento ad una serie tv dicono che è “un lungo film da dieci ore” o cose così?
Ecco, se ascoltassero questo LP degli Aucan direbbero la stessa cosa. E’ veramente un’unica lunga canzone, di svariati minuti.
Un lungo esercizio di stile, che colpisce per la qualità  assoluta della produzione, ma che, a parer mio , si dimentica delle emozioni.
Perchè tra un Quanto sono bravi gli Aucan ed un Cazzo, che bello! ci stanno di mezzo, semplicemente tutte quelle piccole cose che smuovono l’ascoltatore in un brano.
In “Stelle Fisse” manca tutto ciò, e penso che, con il tempo, questa mancanza di empatia con l’ascoltatore potrebbe pesare.
Ma, per ora limitiamoci a Quanto sono bravi gli Aucan.