#10) COURTNEY BARNETT
Sometimes I Sit and Think, and Sometimes I Just Sit
[Mom + Pop/Marathon Artists/Milk!]

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A volte mi siedo e penso ed a volte mi siedo e basta, cioè un invito a non prendersi troppo sul serio. Ogni parola ed ogni accordo di Courtney Barnett è un mattoncino che lastrica il cammino luminoso che ci allontana dalla retorica.

Quando l’ho recensita parlavo di pellicole indipendenti dal color pastello, oggi invece mi viene da pensare ad una spiaggia osservata dalla la fessura tra gli incisivi di Mac Demarco.

#9) ARCHY MARSHALL
A New Place 2 Down

[XL]

Chiamatemi poser ma quando ho saputo che Archy Marshall, conosciuto ai più come King Krule, aveva pronto un nuovo album (e libro e mini-documentario) da pubblicare a Dicembre ho preventivamente liberato un posto in classifica per lui. Ed eccomi qua, a lasciarmi trasportare dalla sua voce baritonale e da un beat sobrio e preciso per le vie di una Londra che non conoscerò mai, ma che oggi appare meno distante. Il libro arriverà  presto ed allora l’esperienza sarà  completa. Per ora bastano l’immaginazione e le parole.

#8) JAMIE XX
In Colour

[XL]

Ricordo perfettamente quando nacque il mio amore per Jamie xx: ero a Milano ad un concerto degli XX e lo guardavo sbattersi avanti ed indietro, sullo sfondo, mentre gli altri due stavano dritti, impalati davanti a noi. Jamie neanche ci guardava, preso com’era dal suo lavoro.

Al legame “affettivo” con “In Colour” si aggiunge pure la musica: una tavolozza di colori luminosi in cui l’elettronica scappa dal club per andarsi a prendere un po’ di aria fresca. Un saliscendi che dura undici tracce e che trasporta l’ascoltatore verso un mondo in cui il dance-floor non è più appiccicosa e lurida ma tirata a lucido come il parquet di un appartamento a Brera.

#7) PANDA BEAR
Panda Bear Meets the Grim Reaper

[Domino]

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Ho una mia teoria su Panda Bear e su gli Animal Collective: sono esattamente l’equivalente, in termini melodici, di quello che sono stati la vitalità , l’eclettismo e l’allegria spensierata del liceo.
Insomma, ascolto questo album e tra le voci che si alternano ci vedo la mia kefiah che ogni giorno cambiava colore, le barbe asimmetriche e gli zaini Napapijri dalle tinte discutibili.

Purtroppo a diciotto anni ero un po’ acerbo e non mi sarebbe mai piaciuta una canzone di Noah Lennox. Avrei fatto finta di capirla, certamente, se me l’avesse consigliata la persona “giusta”.
Ma insomma, mettiamoci un po’ di punteggiatura a caso e traduciamo alla lettera la canzone più convincente dell’album e viene fuori “Ragazzi, latino!”.
Cioè, la preghiera che ogni studente del classico sussurrava e sussurra in prospettiva della seconda prova d’esame.

#6) DEERHUNTER
Fading Frontier

[4AD]

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Ero sicuro di mettere un album di Indie Rock, perchè da sempre è il genere di musica che ho nel cuore. Ad inizio anno avrei scommesso su una riconferma dei Django Django, ma, ahimè, “Born Under Saturn” è veramente una noia mortale. E’ un peccato, un grosso peccato.
Non ci resta che consolarsi con il ritmo funky di “Snake Skin” e l’indie senza sbavature dei Deerhunter.

#5) JULIA HOLTER
Have You in My Wilderness

[Domino]

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Ovvero, quando la semplicità  è un tranello.
Un album che nasconde sotto una facciata pop, diretta e luminosa un lavoro prezioso fatto di precisione e millimetri.
La storia ci ha insegnato che non ci vuole poi molto a far musica popolare ma che serve una maestria quasi disumana nel farla durare nel tempo.
Poi, lo so, Julia Holter ci regalava lunghe melodie criptiche e rarefatte e a tutti noi piaceva un sacco.
Oggi, il suo universo, la sua meraviglia ritorna ma in maniera più compatta, nella tipica forma-canzone e a me piace ancora di più.

#4) BENJAMIN CLEMENTINE
At Least For Now
[Behind]

Telefonato, lo so. Che ci possiamo fare, però?
E’ emozione pura, quella che come condensa gocciola dal soffitto e si infrange sul piano di Benjamin Clementine mentre la sua voce profonda e piena parla di pietre angolari.
E’ il viaggio della vita di ognuno di noi, che non passa necessariamente per Londra e Parigi ma che tocca gli stessi punti, le stesse corde.
Insomma, siamo un po’ tutti Winston Churchill’s boy(s) con lui.
E’ il potere di un piano, degli archi e di una voce nel creare contatti e legare tutti noi per quattro minuti, la durata media di una canzone.

#3) IOSONOUNCANE
DIE

[Tannen]

Qua avrei veramente tanto da dire, per le poche righe che mi sono concesse.
Partiamo da questo concetto: io non sono particolarmente affezionato alla scena indie italiana e se pongo questo album così in alto non lo faccio certamente per partigianeria.
Tutt’altro, “Die” semplicemente è un lavoro fenomenale, miracoloso che ha settato nuovi standard che nella nostra allegra penisola difficilmente verranno superati nel brevo periodo.
Il perfetto equilibrio tra la musica del futuro e gli strumenti della tradizione, un connubio in cui si incontrano elettronica e percussioni primitive.
Una magia che nasce nel coro di tenori sardi e nella tetra marcia in beat di Tanca e che si chiude tra zoccoli e polvere in Mandria.
Tutto si apre e da un treno regionale mi sembra di vedere le scogliere del mio mare.

#2) BEACH HOUSE
Thank Your Lucky Stars
[Sub Pop]

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La storia d’amore più bella di quest’anno.
Molto semplicemente ed in maniera molto diretta.
Fatico a spiegarvi il senso di appagamento che ho provato,come ascoltatore, nel vivere questa storia incredibile
Cioè, pubblicare due album a neanche due mesi di distanza è un gesto sconsiderato, un vero e proprio atto d’amore.

Ed in questo mondo in cui la musica è quasi intercambiabile, e l’offerta è così sconfinata da sdoganare una disaffezione globale abbiamo bisogno di questo amore.
Ah, poi ovviamente l’album è bellissimo ma ne ho già  parlato abbastanza quando era il momento.

#1) SUFJAN STEVENS
Carrie & Lowell

[Asthmatic Kitty]

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Parlare di album dell’anno è riduttivo.
E’ un po’ di più.
E’ la storia di un uomo che incontra il lutto e che affronta la perdita con coraggio e dolcezza.
E’ il racconto di una vita ed il racconto di altre vite che avremmo voluto conoscere meglio.
Ed in tutto ciò la bellezza sta nella concretezza: non è un’avventura remota narrata con nostalgia dal nonno durante i pranzi di Natale ma è l’autobiografia, il vissuto dell’autore stesso che si esprime attraverso le parole e la musica.
Un album di un’umanità  sconcertante, quasi imbarazzante che mi commuove ogni volta.
E’ Sufjan che parla di se stesso, di me, di ognuno di noi.
Si ascolta la musica solo per vivere canzoni come queste.