Ogni volta che penso ai Tindersticks mi meraviglio di come una proposta musicale così elegante e raffinata come quella di Stuart A. Staples e soci sia potuta sopravvivere a quell’orgia di colorate canzonette da pub che fu il Brit Pop, il rischio di passare inosservati in mezzo alla battaglia tra Blur e Oasis e all’ostentazione di dandysmo dei Pulp era enorme, fortunatamente il gruppo nato a Londra nel novantadue è riuscito a ritagliarsi il suo spazio e a costruirsi una solida carriera più che ventennale che a oggi conta una decina di album propriamente detti e numerose colonne sonore.

“The Waiting room” arriva dopo alcuni avvicendamenti all’interno della band e segue “Across six lap years” del duemilatredici (lavoro che riprendeva materiale già  pubblicato tratto sia dagli album passati del gruppo che dai dischi solisti di Staples), riconsegnandoci un gruppo che si lascia alle spalle alcune delle incertezze recenti per dare alla luce un lavoro che strappa di diritto a “The Hungry Saw” del duemilaotto la palma di miglior album post “Curteins”.
Non aspettatevi rivoluzioni copernicane dalla band di “Jism” e “Tiny Tears”, il mood ombroso e ossessivo del loro sound è sempre quello che abbiamo imparato ad amare nel corso degli anni e la voce profonda e magnetica di Stuart A. Staples pare come al solito sempre sul punto di spezzarsi. Tuttavia qua e la ci sono novità  interessanti che vanno sottolineate come le trascinanti aperture afro beat di “Help yourself” o le tenui rifrazioni sintetiche che avvolgono la voce in “Second chance man”, rendendola se possibile ancora più intensa e drammatica.

La tentazione di affermare che i Tinderticks abbiano pubblicato quello che è da considerarsi in assoluto il loro album più bello dagli esordi è forte, ma forse è ancora più importante sottolineare come una band con quasi venticinque anni di carriera sia riuscita a condensare in un album perfetto un’idea di musica che prescinde dalle mode del momento e dal peso degli anni: impossibile in tal senso non rimanere affascinati dalla melodia circolare e morbosa di “Were we one lovers?”, dall’ebbro dialogo di “Lucinda”, brano che vede alla voce la scomparsa cantautrice messicana Lhasa De Sela, e dall’angoscia crescente di “We are dreamers”, altro riuscito duetto insieme a Jenny Beth delle Savages.
Se bisogna trovare un difetto a “The Waiting room” questo consiste nel fatto che forse più che un album che gira intorno ad un’idea base esso sembra più che altro un “Best of”, tanto è il potenziale di ognuno di questi brani che dove peschi nella scaletta prendi un potenziale singolo, di quelli che sono un po’ mancati agli ultimi lavori della band.

Dopo tante colonne sonore i Tindersticks hanno realizzato il commento musicale del film più bello, quello riguardante la storia di un gruppo che ha accompagnato la vita di noi disperati e inguaribili romantici: a noi non resta che ringraziarli per essere stati con noi ogni qual volta che una ferita dell’anima aveva bisogno di essere guarita con la dolente poesia della loro musica.

Credit Foto: Richard Dumas