A marzo la NRCSS Industry ha prodotto il primo disco da solista di Jeremy Gara, “Limn”: 10 tracce ambient a metà  strada tra gli sperimentalismi di Aphex Twin, Autechre e Boards of Canada e le pennellate di un Francis Bacon e un Otto Dix. L’album è ostico, di non facile elaborazione e fruizione, ma ha anche il pregio di avventurarsi lungo sentieri coraggiosi e alternativi. Il batterista e polistrumentista degli Arcade Fire dà  vita a un mosaico sonoro denso, desolato ma assolutamente affascinante. Più che di musica nel vero senso del termine, qui si parla di immagini, descrizioni musicali di mondi possibili, fotografie, istantanee immaginate. Il rischio di risultare poco decifrabile e, dunque, noioso è alto. Ma per gli amanti di un genere così sperimentale ed evocativo, “Limn” può rappresentare l’esempio di una produzione molto ben congeniata.

Il disco parte con “Divinity”, singolo estratto dall’album, un viaggio nello spazio e nel tempo che subito catapulta in una dimensione ultraterrena: il brano è avviato e percorso da un clangore metallico straniante e ipnotico, loop sintetici disegnano cerchi concentrici; aleggia un senso di struggimento malinconico, di isolamento consapevole; il clangore persiste e bolle di sapone pixellizzate librano sopra la materia; l’armonia è totale e da metà  in poi diventa estasi, con note lunghe e avvolgenti che edulcorano lo sguardo arcigno di un osservatore/ascoltatore solitario. Con “Chicago” l’atmosfera e i colori virano totalmente: si passa dalla pace rafferma della struggente “Divinity” al gelo catartico di una società  postindustriale: il motivo di base è quello che ha tutta l’aria di somigliare al ronzio di un impianto, una ventola, una turbina in accensione. Il meccanismo respira, alternando frequenze basse, spettrali e acide, a picchi più alti, gracchianti, apocalittici: se si potesse attribuire un dettaglio “umano” a uno stabilimento industriale, “Chicago” ne sarebbe la voce. Dalla forza del metallo alla goliardia lugubre di una festa di paese, “The Dupe” è l’orrore di un clown con la veste strappata e il sorriso beffardo, un pianoforte-carillon scordato suona la marcia del camposanto e lo scemo del villaggio (the dupe) se ne sta lì in un angolo, solo, a osservare la realtà  che gli gira intorno. “The Gate” è totale astrazione, 11 minuti e 25 secondi di sovrapposizioni strumentali, loop stranianti e aggiunte di motivetti sghembi, angoscianti e sorprendenti: un viaggio orrorifico in uno dei quadri espressionisti di Gara. “Judgement Dialogue” torna in ambiente industriale con una sintesi di sonorità  che si srotolano come una pellicola fatta di microchip saltellanti, aspirapolveri difettose, colpi sordi in lontananza e condizionatori accesi all’infinito.

I grovigli gioviali di “Tangles” restituiscono un briciolo di melodia a un album composto perlopiù di immagini e sensazioni. L’intermezzo però dura poco perchè, prima con “Violence” e poi con “Imagined Machine”, l’orecchio dell’ascoltatore torna ad ammirare deserti sterminati solcati da raggi violacei, mari color petrolio, esplosioni sotterranee e boschi di abeti in controluce. “The Desert” chiude il trittico industriale composto da “Chicago” e “Judgement Dialogue”, continuando sulla stessa linea di terreo isolamento e incomunicabilità  definitiva. “A New Age” è l’ultimo brano, il velo scuro sembra sollevarsi, in primo piano c’è una melodia dolce e delicata ma in sottofondo, prima indistinte poi più chiaramente percepibili, spuntano sirene urlanti e angosce metropolitane: è la summa di un album bello e affascinante, sintesi pittorica tra il timore di esistere e l’anelito a una sfida poco rassicurante.