I’m trying, but I just can’t get you /Ever since the day I left you“. Li avevamo lasciati così i The Avalanches, con le ultime parole di quel gran concept album chiamato “Since I Left You” uscito nel 2000. Negli anni successivi di questi misteriosi party animal australiani, gran conoscitori di vinili e consumatori industriali di sample, sembravano essersi quasi perse le tracce. Vittime del successo di un disco volato oltre le loro più rosee aspettative. Prigionieri di un perfezionismo brutale che li ha costretti a provare e riprovare centinaia di volte, a fare e disfare all’infinito prima di dichiararsi soddisfatti di questa nuova fatica. Nel frattempo i The Avalanches hanno perso diversi pezzi per strada (Darren Seltmann, DJ Dexter Fabay) e oggi al timone ci sono solo Robbie Chater e Tony Di Blasi, con James Dela Cruz che va e viene e un po’ di amici chiamati a far squadra in questo strano viaggio pieno di autostoppisti e materia grigia in movimento.

Ascoltando, trepidanti, “Wildflower” si capiscono immediatamente alcune cose: che in questi quindici e passa anni Chater e Di Blasi si sono tenuti informati su chi è chi nel mondo musicale, che non hanno voluto fare per forza un clone di “Since I Left You”. E che la scena dance / elettronica odierna gli va stretta. I The Avalanches restano dei DJ vecchio stampo e da lì non si spostano di un millimetro. Maestri del taglia e cuci e innamorati dei mixtape, da bravi fanatici dell’hip hop. Poco personaggi e molto fedeli a se stessi anche a costo di non essere (più) di moda. Il party stavolta dura giusto qualche canzone, poi si parla più che altro della mattina dopo. Quando sorge il sole, l’adrenalina scorre ancora nelle vene, si torna a casa e c’è già  un po’ di nostalgia per quello che è successo di notte. Certo, se si dorme sul divano di Chater e Di Blasi si fanno incontri interessanti. Tipo i Camp Lo seduti in giro, Kevin Parker che suona la batteria, Danny Brown e Doom che furoreggiano a suon di calypso in “Frankie Sinatra”, Chaz Bundick aka Toro Y Moi che si fa un caffè di ritorno da un trip benigno in “If I Was A Folkstar”, Jonathan Donahue dei Mercury Rev che gorgheggia in “Colours”, “Kaleidoscopic Lovers” e “Harmony”, la stranissima coppia Jennifer Herrema & Warren Ellis che fa gli onori di casa in “Stepkids”, Father John Misty e David Berman che ti stravolgono un sabato sera qualsiasi.

Paragonare “Wildflower” a “Since I Left You” e al mito che ha finito per circondarlo non ha senso. Quasi sedici anni dopo è tutto diverso, le mani di chi crea e le orecchie di chi ascolta. I The Avalanches di allora erano stati in grado di trovare la propria identità  prendendo a prestito quelle altrui, un campionamento dopo l’altro. Ci riescono anche oggi quando farlo è ben più difficile ma a Chater e Di Blasi non sembra importare granchè. Si sono rimboccati le maniche e hanno creato un mondo pazzo, tutto da scoprire. Dannatamente divertente, orgogliosamente malinconico. E tanto basta perchè “Wildflower” è uno di quegli album da prendere in blocco e non a pezzi altrimenti ci si perde il meglio, cosa che in epoca di singoli e download farà  innervosire o annoiare qualcuno. Un disco – fiume da ascoltare così come viene o leggendo le note a margine in piccolo (aiutino: sample sparsi di Lou Barlow, Jerry Lewis, di Chandra, dei Bee Gees e “Come Together” dei Beatles cantata da un coro di bambini previa approvazione di Sir Paul e Yoko Ono in “The Noisy Eater”). “Wildflower” è lo schizofrenico, psichedelico, colorato “Infinite Jest” degli Avalanches. Fuori dal tempo e dalla storia. Dopo una così lunga assenza non era mica scontato.

Credit Foto: Grant Spanier/Press